Enea e la migrazione di un popolo - Le Cicogne Troiane - Sapienza Misterica

SAPIENZA MISTERICA
Vai ai contenuti

Enea e la migrazione di un popolo - Le Cicogne Troiane

Stirpe Dardanica
ENEA DISCENDENTE DI DARDANO

 
I miti, siano essi ebraici greci, egizi, indù, non raccontano favole, secondo l’interpretazione moderna, ma raccontano fatti storici velati da simboli e allegorie, ma in ogni caso è bene sapere che essi nascevano sempre in ambiente misterico e che la chiave d’interpretazione per comprendere il linguaggio misterico va girata più volte, nel senso che vi sono più livelli di interpretazione, uno di questi riguarda le vicende di popoli legate alle figure di Eroi che incarnano l’anima del popolo stesso e appaiono come re sacerdoti e legislatori.
 
Come l’Iliade di Omero non è certo un racconto storico come normalmente inteso, così si deve intendere l’Eneide, come un racconto mitico e come tale deve essere decifrato. Nello stesso modo che Omero per comporre il poema epico dell’Iliade ha attinto a antiche leggende e canti che facevano parte di un’antica tradizione orale, così Virgilio crea un’opera simile che racconta e vela allo stesso tempo.
 
Euripide[1] e i Kypria narrano che Zeus e gli Dei si sarebbero serviti della bella Elena per purificare la terra dai peccati dei mortali, provocando una guerra anziché un Diluvio. La terra soffriva troppo sotto il peso degli uomini, diventati troppo numerosi e Zeus decise di provvedere a un suo alleggerimento. Zeus all’inizio dei Kypria appare sotto forma di Cigno divino che accoppiandosi con Nemesi fece nascere Elena colei che doveva causare l’annientamento del genere umano. La caduta di Troia di Troia segna la fine dell’Era del Bronzo.
 
Enea è descritto nell’Iliade come un principe troiano discendente di Dardano. Varrone e Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane, I, 61), narrano che la nascita di Dardano e Iasio era avvenuta in Arcadia. Si narra che Zeus e la Pleiade Elettra ebbero in Arcadia due gemelli, Dardano e Iasione o Iasio. Elettra madre di Dardano era figlia di Atlante e nata in Arcadia. Nell’Iliade, il capostipite dei Troiani è Dardano, come lo stesso Omero fa dire ad Enea, quando questi ricorda ad Achille i propri antenati:
 
Io mi vanto d’esser nato figlio del magnanimo Anchise, e mia madre è Afrodite [...]. Se però vuoi conoscer bene tutta la mia stirpe, molti la sanno fra gli uomini. Dardano primo fu generato da Zeus adunatore di nembi, e fondò Dardania, perché la sacra Ilio, città di mortali, non si ergeva ancora sulla pianura, ma la popolazione abitava alle falde dell'Ida ricco d'acque. E Dardano generò un figlio, il re Erittonio [...] che generò Troo re dei Troiani. Nacquero a Troo tre figli senza macchia  Ilo Assaraco e Ganimede [...] Assaraco generò Capi, e questi Anchise, e Anchise me; e Priamo generò Ettore glorioso. Di questa stirpe, di questo sangue mi vanto. (Iliade XX, 208-241).
 
Omero mette l’attenzione sul fatto che Dardano figlio del Signore dei temporali e delle folgori fonda Dardania (sul sacro monte Ida) ma non la città dei mortali Ilio, il cui compito era assegnato a un suo discendente. Ilo il Giovane obbedendo a un oracolo, seguì la vacca avuta in premio ai giochi in Frigia, fino a che giunta sul luogo collinare detto l’Até frigia la vacca si sdraiò. In quel luogo obbedendo all’oracolo datogli dal padre Dardano, Ilo fondò una città che chiamò Ilio[2], ma non la fortificò. Ilo tracciò il solco sacro che segnava i confini del mondo, o della sua città-nazione. Questo rito fu eseguito anche da Romolo un discendente di Enea, che nel mito italico fondò la città di Roma. Per Plutarco[3], il fosso rappresentava un universo, che aveva il mundus come centro del cerchio. Il sulcus della fondazione di Roma fatto come quello della fondazione di Troia, era stato eseguito in senso antiorario, quello della precessione degli equinozi, dei grandi cicli temporali. Simbolicamente il solco sacro delimita un cosmo ordinato, circondato dalle forze ostili del Caos che premono contro la sua cintura.  Ilo il Giovane pregò Zeus affinché gli desse un segno, e il mattino seguente trovò davanti alla sua tenda il Palladio, la pietra simulacro di Pallade Atena, si narra fatto con l’osso di Pelope, lo stesso donato da Elettra a Dardano.

Una rappresentazione di Afrodite, che vola attraverso i cieli sul suo cigno è riportata nella parte inferiore interna, il tondo, in una kylix attica a terra rossa a figure bianche, attribuita al pittore Pistoxeno (460 a.C.). Afrodite la madre di Enea, in questa rappresentazione è anche’essa collegata al cigno e alla cicogna. I Pelasgi sono i discendenti di Iasone, il fratello di Dardano, e venivano anche chiamati Pelargi o cicogne. Arcadia è il continente del primo uomo fisico Pelasgo, capostipite dei Pelasgi. Pelargos significa cicogna, cigno. Il viaggio di Dardano e della sua famiglia suoi appare come una migrazione di un popolo che probabilmente era noto col nome di Cicogne o Gru.
 
 
Figura 1. Afrodite su cigno[4]
 
Scrive Karóly Kerényi in Miti e Misteri, fu soltanto al principio di quell’età eroica, nella quale la storia del mondo cominciò in modo mitologico, al tempo in cui la terra già soffriva, perché l’umanità era diventata troppo numerosa, ed alcune grandi dee furono condannate a generare figli con i mortali. Si potrebbe dire che le storie degli Eroi entrino allora nel “tempo” inteso secondo la nostra concezione: tutto quanto era accaduto prima era “tempo primordiale” o “tempo” confuso ancora con il “tempo primordiale”. Sulla costa asiatica del mare greco, Afrodite, la dea dell’Amore si unì col pastore troiano Anchise, nipote di Laomedonte, che era stato punito da Eracle[5] e gli partorì Enea, che non fu allevato da lei stessa, ma fu affidato alle Nife del monte Ida. Il figlio di Afrodite doveva rassomigliare di aspetto agli Dèi ed essere il solo a Troia, così protetto dagli dèi, da restare serbatoio della futura umanità.[6]
 
La storia della nascita di Enea è raccontata nell’Inno ad Afrodite, uno dei maggiori inni omerici. Nell’Inno Enea viene menzionato per la prima volta con Afrodite che lo chiama Αἰνείας (Aineías) per l’αὶνóν ἄχος (terribile dolore) che le ha causato, dove Aineías deriva dall’aggettivo αὶνóν (ainon, che significa terribile). Enea non fu l’unico figlio che Anchise generò poiché prima che nascesse Enea si era già sposato con Eriopide e dalla quale ebbe numerose figlie, la maggiore delle quali si chiamava Ippodamia.
 
Fu partorito da Afrodite sul monte Ida e affidato alle ninfe perché lo allevassero. Lì ordina di crescere il bambino per cinque anni, quindi di portarlo ad Anchise. Fu poi istruito dal centauro Chirone. Anchise in seguito si vanta del suo incontro con Afrodite e, di conseguenza, viene colpito al piede da un fulmine di Zeus. Questo episodio è testimoniato da Omero, nell’Iliade, ed Esiodo nella Teogonia.
 
Enea si dimostrò valoroso guerriero, in grado di tenere testa persino ad Achille: poiché se Ettore era il braccio di Troia, Enea ne era la mente. Afrodite Venere madre di Enea, spesso lo soccorse durante le battaglie, Nell’Iliade, Omero narra che Diomede durante un combattimento prende una pietra enorme e la scaglia verso Enea colpendolo seriamente a una gamba, l’Eroe sta per essere ucciso, interviene Afrodite lo avvolge nel suo velo, e lo trascina fuori dal campo di battaglia. Diomede li insegue e scaglia nuovamente il giavellotto, colpendo Afrodite. La ferita costringe la dea a lasciare il figlio. Ma interviene Apollo, anche lui schierato con i troiani, rialza il principe privo di sensi e rimprovera Diomede di essersi misurato con gli dèi. Diomede indietreggia, spaventato. Apollo avvolge Enea in una nube, trasportandolo in un luogo sicuro. Quindi crea un’immagine di Enea, su cui il resto degli achei si lancerà per ucciderlo. Apollo portò via Enea dal campo e lo affidò alle cure di Latona e di Artemide. Afrodite protegge Enea nascondendolo nel suo velo come in una nube, azione che ripete Apollo con la nube. Enea volle affrontare Achille in duello, gli scagliò la sua lancia ma non riuscì a colpirlo.              
 
«Achille a sua volta scagliò l’asta dalla lunga ombra e colpì Enea nello scudo rotondo al bordo estremo dove il bronzo è più sottile e più sottile la pelle di bue. Da parte a parte passò, il frassino del Pelio, e lo scudo risuonò sotto il colpo.» (Omero, Iliade, Canto XX, vv. 273-277).
 
Achille balzò contro Enea, ma Poseidone, che apprezzava Enea decise di salvare il figlio di Anchise avvolgendolo in una spessa nebbia e ponendolo fra le ultime file dell’esercito. Velo, nebbia, nube sono simboli di protezione divina. La nube ricompare nell’Eneide di Virgilio quando Enea entra non visto a Cartagine.
 
Secondo Virgilio, Enea, discendente di Dardano figlio di Zeus, dopo la caduta di Troia, con il figlio Ascanio e con i sopravvissuti Troiani, riportò il Palladio e il Fuoco Sacro in Italia da dove era partito il suo antenato.
 
Degna di nota è la presenza del nome dei Tirreni (Tyrsenoi) nelle sia pur tarde iscrizioni (II sec. d.C.) del lago di Ascanio[7]. Secondo l’Iliade, l’eponimo Ascanio era il leggendario condottiero dei Misi o dei Frigi della regione dell’Ascania. Dopo Omero, fu collegato con la leggenda di Enea. Secondo fonti diverse avrebbe regnato su varie regioni dell'Asia Minore ed avrebbe ricostruito il regno di Troia[8]. Secondo altri fu lui, e non Enea, a condurre in Italia i profughi Troiani[9]; poi prevalse la tradizione della migrazione al seguito di Enea, con molte varianti. Finché, secondo la versione più famosa di Virgilio divenne il figlio giovinetto di Enea e di Creusa.[10]
 
Quando Ilio fu data alle fiamme e orami persa, Enea abbandona Troia con i suoi seguaci. Vi sono molte versioni sugli eventi che accaddero a Enea dopo la caduta di Troia. Secondo Omero divenne in seguito fondatore di un grande regno nella Troade. Secondo alcuni, Afrodite avvisò Anchise di rifugiarsi sul monte Ida prima della caduta della città ed Enea fuggì appena in tempo dopo aver assistito alla morte di Laocoonte e dei suoi figli.
 
Anchise essendo zoppo, Enea dovette portarlo sulle spalle fuggendo dalle fiamme di Troia. La fuga di Enea da Troia si ritrova nelle raffigurazioni vascolari trovate in Etruria. La più antica raffigurazione di personaggi che si allontanano da Troia occupata dai Greci si trova su un oinochoe (anfora) risalente alla fine del VII secolo a.C. conservata presso la Biblioteca Nazionale di Parigi attribuita al cosiddetto “Pittore della Sfinge Barbuta”(VII sec. a.C.)[11]. Inoltre le ricerche archeologiche hanno riportato alla luce una sessantina di vasi (una ventina di area etrusca) databili al periodo 525-470 a.C., decorati con figure che mostrano Enea che parte con Anchise sulle spalle. Vi sono anche statuette ed altri oggetti fittili di provenienza etrusca (anni tra il 515 e il 490 a.C.) che raffigurano Enea con Anchise o Enea da solo mentre porta in salvo i simboli (il Palladio) della città di Troia.

 
Figura 2. Enea porta sulle spalle anchise
 
Secondo la versione romanica narrata da Virgilio, l’unica famiglia troiana risparmiata dai Greci, oltre a quella di Antenore, fu la famiglia di Enea il quale, come Antenore, aveva invano cercato di indurre i Troiani a restituire Elena e a concludere un’equa pace. Agamennone, scorto Enea che caricatosi il venerando Anchise sulle spalle si avviava verso la porta dardanica senza nemmeno guardarsi attorno, diede ordini perché un figlio così pio e rispettoso non fosse molestato. Altri, tuttavia, dicono che Enea si trovava in Frigia quando Troia cadde. Altri ancora, che egli difese Troia fino all'ultimo, poi si ritirò sulla cittadella di Pergamo (la parte alta della città) e, dopo aver resistito tenacemente, mandò i suoi compagni sul monte Ida col favore delle tenebre e li seguì non appena possibile portando con sé i familiari, il tesoro di casa e le immagini sacre; e che quando i Greci gli proposero termini di pace onorevole emigrò a Pellene in Tracia e oppure a Orcomeno in Arcadia dove morì.
 
La testimonianza più antica nella fuga in Italia via mare di Enea è dovuta al poeta Stesicoro (VI  sec. a.C.), ripresa da Virgilio, insieme a lui si aggregarono molti troiani e anche vari guerrieri provenienti da altre regioni che avevano preso parte al conflitto come alleati. Enea nel racconto di Virgilio parte con 20 navi  di troiani e alleati, ma giunge nel Lazio solo con tre navi di troiani. Enea appare a capo di una nuova migrazione dardanica, un ritorno delle cicogne troiane verso l’Italia per iniziare un nuovo ciclo.
 
Per quanto riguarda l’Italia, il viaggio di Dardano verso Occidente, nel mito narrato nell’Eneide da Virgilio, inizia in Etruria anziché in Arcadia. Secondo Virgilio, Enea era un discendente di Dardano, dopo la caduta di Troia, con il figlio Ascanio e con i sopravvissuti Troiani, riportò il Palladio e il Fuoco Sacro in Italia da dove era partito il suo antenato.
 
Menecrate riferisce che a Troia non vollero riconoscere ad Enea un’alta carica sacerdotale. Dionisio di Alicarnasso (I, 67) riferisce che Dardano lasciò a Samotracia il culto misterico dei Grandi Dei e portò nella futura Troade solo il culto exoterico, religioso di essi. Ciò spiegherebbe perché Menecrate di Xanto scrisse che ad Enea non si volle riconoscere una certa qualifica sacerdotale. Allusione alla pretesa di voler impersonare il culto esoterico di Samotracia?
 
Virgilio narra che Dardano, era nato nella etrusca città di Corito (oggi Tarquinia). Da qui emigrò in Samotracia, dove introdusse la religione etrusca dei Misteri; poi si spostò nella Troade, dove i suoi discendenti fonderanno Troia. Quando poi questa città verrà distrutta dai Greci, gli dèi imporranno a Enea di ricondurre i superstiti Troiani a Corito perché questa era la loro antica madre terra. I miti conservano nel loro linguaggio la memoria di queste emigrazioni.
 
Gli oggetti sacri portati in Italia da Enea erano i simulacri kabirici dei Grandi Dèi che tra i Greci erano particolarmente venerati dai Samotraci. Platone, conferma indirettamente l’antichità dell’Etruria su Atene, quando afferma che, chiunque si fosse accinto a porre le basi di uno Stato avrebbe dovuto attenersi ai responsi degli oracoli di Delfo, di Dodona e di Ammona i quali prescrivevano quei sacrifici e quei riti che si dicevano importati dall’Etruria e da Cipro[12].
 
Secondo il tragediografo greco Licofrone (IV-III sec. a. C.), Enea, dopo la rovina di Troia, condusse i superstiti Troiani a sbarcare alla foce del fiume Linceo (il Mignone presso Tarquinia?) in Etruria dove convisse con Tarconte (re di Tarquinia e capo della Lega Etrusca). Qui arrivò pure Ulisse che chiese perdono ad Enea ed ottenne da lui di stanziarsi in un’isola o località marina chiamata Gortina (Corito?). Enea, poi, dall’Etruria, andrà a colonizzare la valle del Tevere dove fonderà Lavinio. Egli, secondo lo storico greco Plutarco (I sec. d. C), aveva sposato una sorella di Tarconte, di nome Roma che diede il nome alla città di Roma fondata anch’essa da Enea. Esisteva anche in Etruria, secondo la testimonianza di Stefano Bizantino, un’omonima città di Eneia. Alcuni oggetti etruschi presentano un importante elemento in più: il cesto contenente le statuette degli Dèi Penati di Troia o, comunque, gli oggetti sacri del culto.  I Penati nel racconto di Virgilio sono le rappresentazioni dei “Grandi Dei” di Samotracia, i Palladii, che gli Eneadi – come scrisse già Varrone - avrebbero recato nel Lazio e a cui vennero eretti templi sia a Lavinio che ad Alba ed infine a Roma col nome di “Dei Penati”.
 
Per Alcimo Siculo (IV-III sec. a.C.), altro storico Greco, la moglie di Enea si chiamava Tirrenia: da lei nacque Romolo, da questi Alba, e da quest'ultimo Romolo che fondò Roma. Dionigi di Alicarnasso parlava anche di un’altra città di Eneia fondata sul Gianicolo  da Romo figlio di Enea[13].
 
La famiglia Julia di Roma, in particolare Giulio Cesare e Augusto, fece risalire la loro discendenza ad Ascanio che nel Lazio assumerà il nome di Iulo o Julio, ed Enea, quindi alla dea Venere.
 
Anche i leggendari re della Gran Bretagna - incluso Re Artù - rintracciano la loro genealogia attraverso un nipote di Enea, Bruto. L'Historia Brittonum narra come Enea si sia stabilito in Italia dopo la guerra di Troia e di come suo figlio Ascanio abbia fondato Alba Longa. Ascanio si sposò e la moglie rimase incinta. Un mago predisse che sarebbe nato un maschio, che sarebbe stato il più coraggioso e il più amato in Italia. Infuriato, Ascanio condannò a morte l’indovino. Sua moglie morì di parto, mentre in seguito il loro figlio, appunto Bruto, uccise per sbaglio il padre con una freccia e fu bandito dall'Italia. Goffredo di Monmouth in Historia regum Britanniae narra che i troiani si recarono nell'isola chiamata Albione e che Bruto, dal suo stesso nome, chiamò Britannia, di cui divenne il primo sovrano. Corineo divenne invece re della Cornovaglia, che fu chiamata così in suo onore dopo la sua morte. Attaccati dai giganti, i troiani li uccisero. Sulle rive del fiume Tamigi, Bruto fondò la città di Troia Nova, nome che sarebbe poi divenuto Trinovantum, la futura città di Londra.
 
[1] Euripide, Oreste, 1639-42.
[2] Il numero dei giovani e delle fanciulle che seguirono Ilo, dopo la sua vincita ai giochi è 2x50 ed è un numero androgino, maschile e femminile che indica un ciclo completo formato da due semiperiodi. Con Ilo inizia un nuovo ciclo temporale quello che dovrà terminare con la caduta di Troia.
[3] Plutarco, Rom., 11, 1-5.
[4]https://commons.wikimedia.org/wiki/File:White-ground_Drinking_Cup_(Kylix)_Potted_in_Euphronios%27_Workshop.jpg Provenienza Rodi: tomba F43 a Camiros.
[5] Per via di un doppio spergiuro, si Laomedonte era rifiutato di donare ad Ercole i Due Cavalli Divini promessi per l’aiuto ricevuto.
[6] Karol Kerényi, Gli Dèi della Grecia “, Preludio alla guerra troiana.
[7] Ernest Sittig, Atti, 252, in G. Quispel, Gli Etruschi nel Vecchio Testamento, ”Studi Etruschi”, XIV, 1940, pag. 411.
[8] Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, I, 47,5.
[9] Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, I, 53,4.
[10] A. Palmucci, Virgilio e Corinto-Tarquinia, S.T.A.S. - Regione Lazio, 1998
[11] Enciclopedia Virgiliana, s.v. Enea; L.I.M.C, s.v. Aineias,n.92
[12] Platone, Leggi, 138 C.
[13] La diaspora etrusca. Palmucci, Virgilio e Corinto-Tarquinia, S.T.A.S. - Regione Lazio, 1998.
GLI EROI I GIGANTI DELLA QUARTA GENERAZIONE
 
Nel’Iliade Ettore e Aiace si scagliano contro reciprocamente macigni. Ettore e Aiace e Diomede sono descritti da Omero come dotati di forza portentosa, tipica degli uomini della Quarta Generazione, Giganti di statura. Il padre di Enea, Anchise incorse nell’ira di Giove per aver rivelato il suo amore con Venere  e per questo lo rese zoppo. Anchise era dunque una forma di Efesto, Vulcano, un Kabiro. Stranamente (o forse no) come il padre Anchise, anche Enea fu ferito alla coscia, ma a differenza del padre egli guarì. Diomede si comportò come Ettore e Aiace usa in combattimento enormi massi che lancia sugli avversari. Diomede un rompe una gamba ad Enea colpendolo con un’enorme pietra, un macigno nel punto dove la coscia s’innesta nell’anca, l’Eroe cadde  e rimase in ginocchio.
 
Diè di piglio allora
ad un enorme sasso Dïomede
di tal pondo, che due nol porterebbero
degli uomini moderni; ed ei vibrandolo
agevolmente, e solo e con grand'impeto
scagliandolo, percosse Enea nell'osso
che alla coscia s'innesta ed è nomato
cotilia. Il fracassò l’aspro macigno
con ambi i nervi, e ne stracciò la pelle.
Diè del ginocchio al grave colpo in terra
l'eroe ferito, e colla man robusta
puntellò la persona. (Omero, Iliade, Libro V)                       
 
Enea con una gamba rotta fu salvato da sicura morte dall’intervento di sua madre Afrodite Venere che lo nascose nel suo velo. Il corpo di Enea venne ricoverato nel tempio di Apollo e curato da Artemide e Latona.
 
Anche Enea è descritto da Virgilio dotato di forza spaventosa: Enea nel Lazio scaraventa addosso Murrano imparentato con Turno un macigno che lo catapulta a terra giù dal carro. Nell’ultimo scontro tra Enea e Turno questi risponde che non teme lui, ma gli dei avversi, e tenta vanamente di colpire l’avversario con un macigno, le sue forze sono all’estremo: le ginocchia vacillano, la mente si offusca. Gli Eroi della Quarta Generazione Enea, Turno, sono dunque descritti come Giganti.
ANCHISE RESO ZOPPO DALLA FOLGORE DI ZEUS
 
Anchise è mostrato come un buon pastore che pascola il suo gregge sotto il monte sacro Ida, dove egli dimora da cui in seguito partì parti con il figlio Enea. Il monte Ida era il regno della sovrana degli animali selvatici Afrodite, che amava l’orsa, quando la Dea lo vede, viene colpita, si adorna come per un matrimonio tra gli Dèi e appare davanti a lui. Anchise è sopraffatto dalla sua bellezza e crede che sia una Dea, ma Afrodite si maschera come principessa frigia. Nell’Inno di Omero, l’unione di Afrodite e Anchise è anticipata e quasi mimata dagli animali selvaggi che la dea incontra durante l’ascesa sul monte Ida e ai quali infonde il desiderio di accoppiarsi: “Docili l’accompagnavano lupi grigi e leoni feroci orsi e veloci pantere, avide di caprioli”. Afrodite, dopo essersi inerpicata per il monte Ida, trova il giovane pastore tutto solo nella sua capanna, «bello come un dio» (v. 77, θεῶν ἄπο κάλλος ἔχοντα), intento a suonare la cetra. Anchise porta Afrodite, con gli occhi rivolti verso il basso, sul suo letto, che è coperto dalle pellicce di leoni e orsi abbattuti da lui stesso.                                          
 
Figura 1. Venere con  Anchise[1]
 
 
La dea riversò su Anchise un dolce sonno sereno, Hypnos, e si rivestì. Sorgi, di Dàrdano figlio: ché giaci nel sonno profondo? Dopo averlo svegliato Afrodite gli rivela la sua vera identità e Anchise teme ciò che potrebbe accadergli a causa del loro legame. Poi, prima di procreare Enea, rivelò ad Anchise la sua vera identità e gli preannunziò che il nuovo arrivato avrebbe avuto fama eterna: “Ti nascerà un figlio, che regnerà sui Troiani, e poi dai figli nasceranno altri figli, in serie continua”.
 
Nella sua figura complessa rientrano anche aspetti della Grande Madre mediterranea della vita, che assicura fertilità alla terra e fecondità agli animali. Qui c’è nello sfondo la dea frigia Cibele, la Madre della Montagna, una delle forme assunte dalla Grande Dea anatolica. Dietro Afrodite si scopre la dea dell’amore semitica Ištar-Astarte. L’iconografia della πότνια θηρῶν prevedeva la rappresentazione di una figura femminile alata, affiancata da bestie selvatiche, spesso afferrate per il collo, nel gesto che esprime il controllo che la divinità esercitava sulla natura selvaggia. Una simile icona richiama, infatti, il dominio che la maga Circe esercita sulle fiere che popolano il suo giardino, ammansite da droghe e filtri che ella somministra a chiunque metta piede nel suo regno.
 
Il primo amante di Afrodite fu Adone, il bellissimo cacciatore, Dopo Adone fu sposa di Anchise, principe troiano dalla cui unione con Afrodite nacque Enea. Dopo Anchise fu la volta di Efesto, al quale andò sposa. Efesto, il fabbro divino autore di mirabili opere: fu lui a costruire le armi magiche di Achille.
 
Lemno era l’isola ad esso consacrata. Anchise ed Efesto hanno come corrispondenti dio etrusco Velcha e il dio romano Vulcano. Anchise fu sepolto ad Erice in Sicilia luogo dove si venerava la Grande Madre fenicia e Kabirica Astarte. I suoi sacerdoti erano i Kabiri, chiamati anche “efestoi”, cioè figli di Efesto. Un suo tempio era collocato ad Efestia, una delle due città dell’isola di Lemno. La corrispondente dea etrusca di Astarte era Uni, secondo quanto riportato nelle lamine ritrovate nel santuario di Pyrgi nel Lazio.
 
Qui Anchise rievoca il momento in cui incorse nell’ira di Giove per aver rivelato il suo amore con Venere. “fulminis adflavit ventis” mi toccò con la vampa del fulmine. Nel simbolismo, in genere, l’incidente che l’eroe patisce consiste nel diventare zoppo. La zoppìa rimanda ad un antico rituale in cui si mimava l’andatura di un animale, la sua danza d’amore o lo stesso portamento ferino. Era il preliminare cerimoniale all’accoppiamento sacro. L’incidente inoltre occorreva dopo lo ieròs gamòs, volendo alludere allo scemare e venir meno ciclico della forza maschile mentre quella femminile, personificata dalla Dea, rimane intatta.
 
Diomede eroe della Quarta Generazione accompagnato dagli uomini più fedeli, partì per l'Italia, fondò numerose città, come Benevento, Arpi, Brindisi. Virgilio nell’Eneide lo rappresenta come re pacifico e dedito al benessere dei suoi popoli, tanto da rifiutare di partecipare alla coalizione contro Enea, di cui ricorda il valore conosciuto durante la guerra di Troia.
 
Anchise morì a Drepano (l’odierna Trapani) e il figlio gli diede onorata sepoltura sul monte Eryx (dove ora sorge Erice) che si erge sino a 750 metri sopra la baia di Trapani, nel luogo che ospitò uno dei grandi santuari della dea Afrodite. Sulla spiaggia dove egli morì si può ancora vedere una stele a ricordo della sua morte, detta appunto stele di Anchise, che si trova presso la contrada Pizzolungo, del Comune di Erice. Già colonizzato in epoca neolitica, il sacro monte deve aver serbato una venerazione tradizionale alla Magna Mater, risalente alla più lontana preistoria. A lei, la cananea Astarte, la babilonese Ishtar, la greca Afrodite e la Venere romana, le popolazioni si recavano in pellegrinaggio. Anchise muore presso il santuario della Grande Madre, e aggiungo io perché era un suo servitore un Kabiro.  Nevio scrisse che Anchise aveva ricevuto da Venere dei libri oracolari (libros futura continentes).
 
Oggi sulla spiaggia dove egli morì si può vedere la stele che ricorda l’evento. La stele, detta appunto stele di Anchise. La Sicilia è anche nota per i suoi vulcani, isole comprese. Stranamente come Mosè accompagnò il suo popolo per 40 anni nel deserto, ma non mise piede sulla terra promessa, così Anchise non mise piede sulle spiaggia laziali.
 
[1] Dipinto di William Blake Richmond.
 
 
IL MISTERO DI CREUSA SPOSA DI ENEA
 
Enea sposò Creusa, figlia del re Priamo cugino di suo padre, e di Ecuba[1], e da lei ebbe Ascanio. Nella tradizione antica, era nota col nome di Euridice. Creusa era una dei 19 figli legittimi di Priamo, cioè sorella di Ettore, di Paride, Cassandra, Polissena e Laodice. Tutti gli scritti mitici e misterici, fanno riferimento in contesti ben precisi a determinati numeri che rappresentano la chiave per poter interpretare, quello che volutamente veniva velato. Non comprenderemo le vicende narrate nell’Eneide se non utilizziamo quel particolare strumento che è il traduttore o l’interprete fornito dalla conoscenze dei simboli e dei numeri. Apollo, ritorna ogni 19 anni nel paese degli Iperborei; il Sole impiega 19 anni per ricongiungersi con la Luna, il numero del ciclo luni-solare o metonico. Creusa innanzitutto è legata al ciclo troiano e non può accompagnare Enea.
 
Creusa ha come significato “signora”, “matrona”, "regina”. Creusa, secondo il racconto mitico, seguì lo sposo in fuga da Troia; ma mentre stavano fuggendo dalla città in fiamme, ella si perse. Come Creusa si smarrì, nella notte non è dato saperlo, sappiamo solamente che Enea, tornando indietro a cercarla incontrò l’ombra della moglie. Enea provò molta paura, ma lei gli rispose che il volere degli Dèi non era quello di seguire il marito, bensì di andare a servire la dea Cibele, la Grande Madre. Creusa che significa matrona, da Virgilio è assunta quale servitrice della Grande Madre, quasi lei fosse un suo alter ego. Creusa è figlia di Ecuba, nome che secondo K. Kerényi vela Ecate la divinità dell’oltretomba. Un altro nome di Creusa è Euridice che coincide con il nome della Ninfa di Orfeo, anche lui sceso nell’oltretomba. Creusa è fatta morire da Virgilio, per apparire poi a Enea come imago incorporea per spronarlo verso il suo destino.
 
Virgilio fa pronunciare a Creusa le seguenti parole: “magna deum genetrix his detinet oris”, cioè la Grande Madre degli Dèi mi trattiene su queste terre. Si tratta della Dea frigia Cibele vista qui come una ipostasi della terra che accoglie il corpo della defunta Creusa.
 
I culti troiani si basavano su una spiccata vocazione sacerdotale e le loro divinità avevano attributi femminili e ctoni, come la Grande madre Cibele e Venere. Erano scure in quanto associate alla Grande Madre Terra (come nel caso di Iside nell’Antico Egitto o delle Vergini Nere della cristianità). L’attributo scuro (ctonie) si riferisce a qualcosa di ancora non manifestato, custodito nel ventre della terra in attesa di venire alla luce.
 
Enea protende gemendo le braccia per abbracciare Creusa, ma per tre volte egli stringe aria, e l’immagine si dissolve come un soffio di vento. Virgilio descrive l’apparizione di Creusa come infelice simulacro, ombra e immagine.
 
… e mesto chiamai invano ripetendo ancora ed ancora Creusa mi apparve davanti agli occhi l’infelice simulacro e l’ombra di Creusa, immagine maggiore di lei. Raggelai, e si drizzarono i capelli e la voce s’arrestò nella gola …
Tre volte tentai di cingerle il collo con le braccia: tre volte inutilmente avvinta l’immagine dileguò tra le mani, pari ai venti leggeri, simile a un alato sogno …
non v’era speranza di aiuto; mi mossi, e levato il padre sulle spalle mi diressi verso i monti. (Eneide II, 768-798)[2]
 
Il brano del triplice tentativo di abbraccio è riportato sia nell’Eneide con Creusa e con Anchise, e sia nell’Odissea di Omero, quanto Odisseo per tre volte cerca di abbracciare la madre.
 
Tre volte mi avvicinai: l’animo mi spingeva a stringerla;
tre volte volò via dalle mie mani, simile a un’ombra o a un sogno:
e a me un dolore acuto nacque più forte in fondo al cuore.

(Odissea, XI, 206-208)
 
Figura 1. Palazzo Fava, gruppo dei Carracci, Enea e l'ombra di Creusa[3]
 
 
Nelle Metamorfosi di Ovidio anche Orfeo cerca di abbracciare con lo sguardo Euridice: “Orfeo volse indietro lo sguardo per brama di vederla e per paura che lei si perdesse”. In ogni sistema religioso, all’ipostasi umana della divinità, corrisponde un individuo realmente esistito come Maestro Istruttore o profeta. Orfeo rappresenta l’incarnazione o il Sole uomo, ipostasi umana di Dioniso, il Sole in Terra. Mondato dalla forma passionale il mito ci presenta Euridice, una forma della divinità femminile dell’Ade; ed Orfeo, il suo sposo è una rappresentazione del dio Dioniso, un eroe ctonio. Creusa, Euridice diventa servitrice della Grande Madre Terra, non può seguire il suo sposo ed è fatta scendere da Virgilio nell’Ade. Enea è l’Eroe solare che deve compiere la sua missione e ascendere, dopo quattro anni di regno nel Lazio, in cielo.
 
Dioniso è il Sole dei Morti, e anche una divinità catactonica. Il mito rappresenta infatti la discesa di Dioniso-Orfeo agli Inferi. Così anche Enea, come Odisseo, scende nell’Ade, il primo per incontrare il padre, il secondo per la madre. Finché il Sole è assente dal cielo, Apollo agli Iperborei, cioè in inverno, vige la forza della germinazione della terra, Dioniso, il sole sottoterra. Abbiamo così una triade:
 
  • Apollo il Sole luminoso in Cielo;
  • Dioniso, l’Apollo nero, il Sole in Terra;
  • L’Eroe, il Sole Uomo. Nel racconto di Virgilio, Enea.

[1] Ecube o Ecabe, vela Ecate, la divinità dell’oltretomba.
[2] Traduzione dal latino di Luca Canali.
[3]https://it.wikipedia.org/wiki/File:Fregio_di_enea,_palazzo_fava,_gruppo_dei_carracci,_07_enea_e_l'ombra_di_creusa,_1595_ca..JPG
PUBLIO VIRGILIO MARONE - INIZIATO AI SACRI MISTERI
 
 
Publio Virgilio Marone attraverso Mecenate, conobbe Augusto e collaborò alla diffusione della sua ideologia politica. Divenne il maggiore poeta di Roma e dell'Impero e le sue opere poetiche furono introdotte nell'insegnamento scolastico da Quinto Cecilio Epirota ancor prima della sua morte, verso il 26 a.C.
  
Gaio Cilnio Mecenate (68 a.C. – 8 a.C.), nato da un'antica famiglia etrusca, è stato un influente consigliere, alleato ed amico dell'imperatore Augusto. Gaio Cilnio Mecenate è universalmente riconosciuto come uno dei fautori del successo politico e culturale di Ottaviano Augusto, del quale fu amico della prima ora, nonché potente "ministro della cultura". Si deve, infatti, a lui la costruzione di quei solidi legami tra il principe e il fior fiore dei poeti del tempo, che non si tirarono indietro al momento di fungere da "cassa di risonanza" delle parole d'ordine del nuovo regime. Mecenate seppe trattare "da amici" i vari Orazio, Virgilio, Properzio, facendoli sentire non poeti di corte, ma indispensabili protagonisti di una nuova stagione della storia di Roma.
 
Mecenate, «etrusco de sanguine regum», secondo la formula di Properzio. Certi misteriosi legami fra Mecenate, Virgilio e Pollione fanno supporre l’appartenenza a un gruppo esoterico.
 
Publio Virgilio Marone, impiegò dieci anni a redigere Aeneis, il suo poema, in versi degni di Omero. Le vicende dell’Iliade e dell’Odissea coprono ciascuna un periodo di dieci anni. La guerra di Troia secondo Omero, dura nove anni e si conclude all’inizio del decimo anno. I miti greci narrano che la battaglia fra gli Dei si concluse dopo Nove giorni con la caduta dei Titani nelle profondità del Tartaro, nove giorni dura il periodo d’ira di Apollo contro i Niobidi. Per nove giorni e nove notti dura il Diluvio di Deucalione. Questi tempi sono scanditi dal numero Nove che è il numero del cerchio o del giro, il ciclo. Il ciclo è chiuso dal numero Dieci (9 + 1 = 10) che rappresenta il ritorno al centro (l’Uno) e l’inizio di un nuovo ciclo o Era. Il tempo assegnato al ciclo dell’Eneide è di dieci anni.
 
Il 10 è responsabile di tutte le cose, fondamento e guida sia della vita divina e celeste, sia di quella umana ... L’essenza e le opere del numero devono essere giudicate in rapporto alla potenza insita nella decade; grande, infatti, è la potenza del numero, e tutto opera e compie, principio e guida della vita divina e celeste e di quella umana. Senza di essa (la decade) tutto sarebbe interminato, incerto, oscuro[1].
 
Figura 1. Virgilio
 
 
Alla morte di Virgilio il poema, scritto in esametri dattilici e composto da dodici libri, rimase privo degli ultimi ritocchi e revisioni dell'autore, testimoniate da 58 esametri incompleti (chiamati tibicines, puntelli); perciò nel suo testamento il poeta raccomandò ai suoi allievi Varo e Tuccadi farlo bruciare, nel caso in cui non fosse riuscito a completarlo, ma l’imperatore Ottaviano Augusto ordinò di pubblicarlo così com'era stato lasciato.
 
I primi sei libri raccontano la storia del viaggio di Enea da Troia all’Italia che dura sette anni, mentre la seconda parte del poema, gli ultimi sei libri, narrano la guerra, dall’esito vittorioso, dei Troiani - alleati con i Liguri, con alcuni gruppi locali di Etruschi e con i Greci provenienti dall’Arcadia - contro i Rutuli, i Latini e le popolazioni italiche in loro appoggio, tra cui i Volsci e altri Etruschi. Dopo la vittoria e la fondazione di Lavinio, Enea regnerà sul Lazio fino alla terza estate, cioè per tre anni, in totale 7+3=10 anni, il numero del compimento.
 
Virgilio non fu mai stoico, semmai le sue biografie ci dicono che fu influenzato dall’epicureismo. Questa attenzione allo stoicismo virgiliano si può ben spiegare con il fatto che tra gli autori che si occuparono di Virgilio a Roma vi furono due tra i massimi stoici che l’Urbe conobbe: Seneca e un altro Anneo, Cornuto.
 
Virgilio nella Divina Commedia di Dante si presenta immediatamente nella sua qualità di Iniziato, che ha trasceso la natura umana: «Non uomo, uomo già fui»; ed è per questo che Dante lo prende per duca, Maestro e Signore che lo inizia e lo rende immortale. Virgilio era un Iniziato ai sacri Misteri, e uno dei suoi appellativi era Vate, abile nel conoscere il passato e scrutare il futuro. I resti (cenere e ossa) di Virgilio furono conservati nel sepolcro, si narra da lui stesso concepito secondo forme e proporzioni pitagoriche.
 
Figura 2. Napoli Tomba di Virgilio
 
Il mausoleo funerario, edificato in opus reticulatum agli inizi dell’età imperiale, è del tipo a colombario con tamburo cilindrico su un basamento quadrangolare, in cui è ricavata la cella funeraria a pianta quadrata con volta a botte, illuminata da feritoie e dotata di dieci nicchie per ospitare le urne cinerarie. Dieci è il numero che esprime la sacra Tetractis Pitagorica. Le nicchie sono disposte in due gruppi di tre 2x3=6 e due gruppi di due 2x2=4 dai lati delle aperture. All’interno si accede scendendo 3 gradini. Non ho trovato disegni architettonici dell’edificio, ma in ogni caso dalle fotografie si osserva che:
 
  • L’altezza della struttura quadrangolare è la metà della larghezza di base, con un rapporto ½ di ottava.
  • L’altezza della struttura quadrangolare è uguale a quella del tamburo cilindrico, cioè con un rapporto 1/1, di Unisono.   
 
Secondo Plutarco, i Pitagorici affermavano che il quadrato riuniva la potenza della Madre degli dei, Rhea, nonché delle dee simboleggianti i quattro elementi, e cioè di Afrodite, l’Acqua generatrice, di Hestia, il Fuoco, di Demetra, la Terra e di Hera, l’Aria.
 
Un’antica raffigurazione mostra il sepolcro con degli squarci dovuti a cedimenti del soffitto a botte. Le finestra a feritoia erano 4 a coppie di due 2x2. I muri perimetrali dove alloggiano le nicchie sono realizzati con mattoni quadrati ruotati di 45° disposti a losanga.
 
La posizione di rilievo del mausoleo funerario che domina l’ingresso sul versante napoletano della Crypta Neapolitana, una delle più antiche gallerie del mondo, scavata in età augustea per facilitare i collegamenti tra Napoli ed i Campi Flegrei, attesta sicuramente l’importanza di chi vi fu sepolto e ciò ben si coniuga con la lunga tradizione partenopea che associa Virgilio Marone alla città di Napoli ed alla grotta in particolare con un vincolo plurimo e complesso. La “Crypta Neapolitana” lunga 705 m fu scavata nel I secolo a.C., su progetto di Cocceio, l’architetto di Augusto, se doveva servire a collegare la città con la zona flegrea e Pozzuoli, allora perché viene illuminata al tramonto dai raggi del Sole agli Equinozi, e perché è servita per celebrare culti misterici?
 
Già in epoca antica, infatti, circa un secolo dopo la morte di Virgilio, il luogo divenne sacro per i suoi ammiratori e fu a lungo tema letterario e meta del turismo colto, come per Stazio, Plinio il Giovane e Silio Italico, il quale aveva cura di «adire ut templum» al sepolcro virgiliano, celebrando il 15 ottobre l’anniversario della nascita del poeta. Quasi senza interruzione di continuità, della tomba riferiranno nei secoli successivi letterati, cronisti e viaggiatori, italiani e stranieri, tra i quali Petrarca, Boccaccio e Cino da Pistoia rappresentano fonti di preziose informazioni[2].
 
A Virgilio fu attribuito il potere di proteggere la città dalle invasioni e dalle calamità. Nei pressi del sepolcro fu applicata la celebre l’epigrafe forse scritta da Virgilio stesso: “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope, cecini pasqua, rura, duces."… Mantova mi generò, la Calabria mi rapì (anticamente la Puglia veniva chiamata Calabria), ora mi custodisce Partenope. Cantai i pascoli, le campagne, i duci. Partenope era un sirena e a Napoli era venerata come dea protettrice. Cosa rappresentano le sirene? Lo leggiamo nel catechismo degli Acusmatici (Pitagorici): “Che cosa vi è nel santuario di Delfo? La Tetractis perché in essa è l’Armonia, nella quale sono le Sirene”. Platone nel mito di Er, spiega allegoricamente l’Armonia delle Sfere, collocando su ciascuna delle Sfere una Sirena. L’insieme delle voci delle Sirene che si accordano fra loro produce l’Armonia del Mondo.
 
È molto probabile che a Napoli Virgilio fosse un filosofo Neopitagorico. Virgilio conferma implicitamente di essere un Neopitagorico quando scrive: “Numero deus impare gaudet”, cioè “Dio si compiace di un numero dispari” (Bucoliche, Ec. VIII, 75). I numeri dispari per i Pitagorici appartengono allo Spirito, viceversa i numeri pari appartengono alla Materia e alla forma. Sono molto importanti le tradizioni tramandate intorno ai legami tra gli Etruschi e il Pitagorismo.
 
Nell’antichità Pitagora sovente fu detto Lucumone e nell’etrusca Cortona vi è conservata la celebre tradizione della Tanella di Pitagora, una tomba risalente secondo gli esperti al II sec. a.C., purtroppo venne parzialmente distrutta da soldati francesi nel 1808, ed oggi è fortemente danneggiata.
 
Pitagora mistericamente fu anche considerato fratello del re Tirreno. Plutarco riporta che fu Pitagora a donare agli Etruschi i segni segreti del riconoscimento iniziatico. Quando a Roma nel 191 a.C. si rinvennero dei libri attribuiti a Numa Pompilio, nei quali si associava Pitagora al primo Re di Roma, si attribuivano tendenziosamente alle antiche istituzioni romane allo ius sacrum, base e cardine dello Stato romano, quelle di origini etrusche pitagoriche che, a dir vero, lo stesso Cicerone (Tusc., IV, 2-4) aveva supposto, tali libri furono fatti bruciare dai magistrati romani. Plutarco (Symp. VIII, 7) afferma che gli Etruschi avevano in alta stima Pitagora, e appunto i leggendari rapporti fra Pitagora e Numa Pompilio – esponente di una sapienza  di tipo sacerdotale, le cui relazioni con figure femminili, come la Ninfa Egeria e con le Camene, sono significative – alludono alla congenialità del pitagorismo con quel substrato etrusco e pre-indoeuropeo, di contro al quale il principio più schietto della romanità cercò di costituirsi, non in termini laici-politici, come alcuni vogliono, ma esprimendo una diversa linea della sacralità[3].
 
Plutarco (Questioni conviviali, VIII, 727 B) scrive che un etrusco di nome Lucio, discepolo di Moderato Pitagoreo (I sec. d.C.), sosteneva che:
 
“Pitagora fu un Etrusco; non per parte di padre, come taluni intendono, ma per essere egli nato, cresciuto ed educato in Etruria. Il discorso si basava principalmente sui simboli, come lo scuotere le coltri alzandosi dal letto, il non lasciare sulla cenere l’impronta della pentola tolta dal fuoco bensì sconvolgerla, non accogliere le rondini in casa, non passare sopra la scopa e non nutrire in casa bestie con artigli ricurvi. Lucio diceva infatti che queste cose i Pitagorici le dicono e le scrivono, ma che solo gli Etruschi di fatto le osservano e le custodiscono”.
 
Secondo alcuni Autori greci (Aristosseno, Aristarco e Teopompo) che vengono citati da Clemente Alessandrino (Strom. I,62), Pitagora doveva essere un Tirreno e Iniziato ai Misteri della Samotracia. Diogene Laerzio (VIII, 1) specificava che:
 
“Proveniva da una di quelle isole che erano state occupate dagli Ateniesi quando avevano cacciato via i Tirreni (Etruschi)”.
 
Un altro Autore greco del III secolo a.C., Neante di Cizico, (in Porfirio, Vita di Pitagora, 2) affermava che il padre di Pitagora:    
 
“Mnesarco fu un Tirreno di quelli che colonizzarono Lemno. Da lì venuto a Samo per affari, vi rimase e vi divenne cittadino. Quando poi Mnesarco navigò per l’Italia, il giovane Pitagora lo accompagnò in quella terra che era molto fortunata, e poi di nuovo navigò in essa”.
 
Alberto Palmucci (Diaspora Etrusca cap. IV) scrive che l’isola di Lemno fu chiamata anche Etalia come l’omonima isola etrusca (oggi isola d’Elba), e che i Pitagorici ritenevano che nel loro maestro si fosse reincarnata l'anima di Etalide. Questi, secondo Apollonio Rodio, era figlio di Ermes, ed era stato un argonauta di quelli che erano andati ad abitare a Lemno prima che vi giungessero i Tirreni scacciati da Atene.
 
Pitagora era chiamato anche Pitio e Apollineo; Pitio corrisponde all’antico nome di Delfi, mentre l’attributo apollineo indica esplicitamente la relazione con il culto di Apollo. Secondo un mito popolare diffuso nella Roma imperiale, Pitagora sarebbe stato figlio di Apollo. Il mito fu diffuso nel I secolo d.C. da Apollonio di Tiana. Giamblico (De vita pyth., XXVIII) è riconosciuto dal saggio Abaris come incarnazione dell’Apollo Iperboreo. Pitagora in Grecia non fu mai considerato come un Ellenico, ma come un Fenicio o un Italico Tirrenico. I Fenici veneravano i Grandi Dei , i Kabiri. Nell’isola di Samo Pitagora dove sarebbe solo nato. e, dove aveva trascorso la sua infanzia, è l'isola greca più scoscesa e più fittamente coperta di foreste. Jacob Bronowski la definì “un'isola magica”. Secondo la leggenda, i primi coloni dell'isola furono guidati da Anceo, figlio di Zeus che era partito con gli Argonauti, insieme a Eracle e a Orfeo, nella icerca del Vello d’Oro. Su esortazione dell’oracolo pizio di Delfi, Anceo aveva deciso di fondare una colonia e di portarvi famiglie dall'Arcadia, dalla Tessaglia, da Atene, da Epidauro e da Calcide. L'oracolo impose il nome della futura grande città dell'isola, Samo.
 
La casa di Pitagora i Metapontini l’avrebbero chiamata il tempio di Demetra, cioè il tempio della Grande madre sovrana della civiltà preellenica, pelasgica. Ancora a Roma, è per ordine di Apollo che durante le guerre sannitiche, fu eretta una statua, rimasta fino al tempo di Silla. Le vicende del pitagorismo a Roma potrebbero essere significative se viste alla luce della storia segreta di Roma. Catone l’Anziano, Scipione, Appio Claudio subirono l’influenza delle dottrine pitagoriche.  Con Ennio, Virgilio, Macrobio, e con Nigidio Figulo e con i Sestii a Roma si ebbe la rinascita del Pitagorismo.
 
Apollo secondo il mito uccise Pitone e a causa della sua impresa si guadagnò l’appellativo Pitio. Nei vari miti l’Eroe uccide il Serpente e ne indossa la pelle e diventa anch’egli un Serpente, un Naga secondo la filosofia Indù. Il significato interiore è che l’Avversario, il Serpente non è altro che il nostro sé personale che soffoca imprigiona nelle sue spire il Sé Divino. L’Uomo Interiore, nascosto e sommerso dall’Uomo Esteriore deve diventare l’Uccisore del Drago. In questa guerra fra la Divinità e il Titano che si svolge in noi, siamo in lotta con noi stessi. Il Drago, il Pitone non sarà mai distrutto, ma solo domato ecco perché l’Eroe ne assume il nome. Pitio, Drago, Naga in oriente, è il nome degli Istruttori. Pitagora è una forma di Pitio, un nome per indicare un  Realizzato, che ha il titolo e i poteri per diventare un Istruttore.
 
In pieno VI sec. d.C. Fabio Fulgenzio Planeiade (non l’omonimo scrittore ecclesiastico), vide in Virgilio il misterioso portatore di una dottrina segreta, capace di schiudere nuovi e inaspettati livelli di realtà al di fuori del campo letterario, anche per la diffusione della rinascita neoplatonica che proseguì fino al VI sec., cioè alla chiusura della scuola di Atene ordinata da Giustiniano nel 529 d.C. La discesa di Enea nell’ Averno era una “navigatio” dell’anima umana nei mari delle passioni.
 
E nella famosa quarta Egloga, in cui, mezzo secolo prima della nostra epoca, si fa chiedere da Pollio alle Muse della Sicilia di cantargli i più grandi eventi. Virgilio riprende l’insegnamento della Quattro Età dette Yuga in oriente, e precisamente delle età oro, argento, bronzo, ferro. Auspica la fine dell’attuale Età del Ferro e una nuova Età dell’Oro (v. 8-9). Riprende anche lo schema storico degli etruschi che prevede dieci periodi, il nono dei quali, attuale, era segnato da Apollo (v. 10), e il decimo da Saturno (v. 6). In tale visione della storia Virgilio riprenderebbe un precedente oracolo della Sibilla di Cuma, il cui effettivo contenuto ci è però ignoto: avrebbe profetizzato solo un’età dell’oro o anche, con essa, la venuta di un bambino divino e pacificatore.
 
I Cicli o Yuga, in genere, sono periodi raggruppati per 4, ciascuno dei quali indica un certo stato di perfezione o di decadimento del Dharma. Quattro cicli minori, le stagioni, gli Yuga, compongono un ciclo maggiore. Il numero 4 corrisponde alla lettera ebraica Daleth, che significa Porta, quella che si apre alla fine delle quattro stagioni della vita, o per i Cieli o per gli Inferi.
 
La Tetrade Astratta di Pitagora, secondo la Raffigurazione fatta da Theone di Smirne e da Nicòmaco di Cerasa, consiste in Dieci Punti (1 + 2+ 3 + 4 = 10) inscritti in un Triangolo Equilatero di lato Quattro. Questo Triangolo cela il calcolo segreto dei Cicli o degli Yuga. Il ciclo è diviso in 10 parti di durata 4 poi 3 poi 2 infine 1, in definitiva l’ultimo periodo o piccola era, dura un decimo del totale, il penultimo due decimi e così via. Ordinando in modo inverso i numeri della Tetrade, escludendo la Monade, l’Uno, 4 + 3+ 2 = 9, si ottiene il numero misterico per il calcolo dei cicli 432.
 
L’ultima Era del canto cumano è ora giunta, e la grande serie delle ère [quelle serie che ricorrono sempre ripetendosi nel corso della nostra rivoluzione mondana] ricomincia. Ora ritorna la Vergine Astrea, e il regno di Saturno ricomincia. Ora una nuova progenie discende dai regni celesti. “Propizia sorriderai, tu, casta Lucina, al Bimbo infante che porterà a chiusura la presente Età del Ferro, e introdurrà in tutto il mondo l’Età dell’Oro... Egli parteciperà alla vita degli Dèi e vedrà gli eroi uniti in società con gli Dèi, e lui stesso sarà visto da loro e da tutto il mondo in pace... Allora le greggi più non temeranno il grosso leone; anche la serpe morirà: e le ingannatrici piante velenose periranno. Vieni dunque, caro infante degli Dèi, gran discendente di Giove!... Il tempo è prossimo. Guarda, il mondo è scosso nel suo globo che ti saluta: la terra, le regioni del mare e il sublime cielo.
 
I Cicli sono paragonabili a ruote del tempo dentro all’interno di altre ruote, vi sono cicli minori contenuti in quelli maggiori. I cicli minori sono scambiati dagli studiosi come Eoni e cicli maggiori. I cicli astronomici degli indù — quelli insegnati pubblicamente — sono stati abbastanza ben compresi, ma il loro significato esoterico, nella sua aspirazione a soggetti trascendentali con essi collegati, è sempre rimasto lettera morta. Il numero dei cicli era enorme; andavano dal ciclo Maha Yuga, di 4.320.000 anni, fino ai piccoli cicli settennali e quinquennali, ciascuno con attributi e qualità segreti ad essi connessi. La relazione tra il ciclo di 5 anni, chiamato indizione dai Romani,  e il ciclo di 12 anni di Giove Brihaspati, basato sulla congiunzione Sole e Luna ogni 60 anni: un ciclo tanto misterioso.
 
In definitiva si parte da piccolissimi cicli di 5 anni, l’indizione dei Romani, poi 12 anni, moltiplicando 5x12=60 otteniamo le ore e i minuti. Ordinando in modo inverso i numeri della Tetractis, escludendo la Monade, l’Uno, 4 + 3+ 2 = 9, si ottiene il numero sacro per il calcolo dei cicli 432. Infatti, 432 moltiplicato per 60 l’unità del tempo[4] fornisce 25.920 il numero di anni del Grande Anno Precessionale.   
 
Si parte dal 432, lo moltiplichiamo per 1000, l’Unità di quarto livello, D = 432x1.000 = 432.000, gli anni del Kali Yuga[5]. E al termine di questo ciclo secondo la dottrina orientale è atteso il Kalki Avatâra — l’Avatâra il cui nome e le cui caratteristiche sono segreti, il quale proverrà dalla “Città degli Dèi”. E questo è il motivo per il quale, dai Istruttori indù fino a Virgilio, e da Zoroastro fino all’ultima Sibilla, fin dall’inizio della Quinta Razza, hanno tutti profetizzato, cantato e promesso il ritorno ciclico della Vergine — la costellazione — e la nascita di un divino infante che dovrà riportare sulla terra l’Età dell’Oro. La Sibilla di Cuma alludeva ai cicli in generale e al Grande Ciclo in particolare. I Purana indù confermino tutto ciò. In particolare il Vishnu Purana afferma che: “Quando le pratiche insegnate dai Veda, e le Istituzioni della Legge saranno quasi cessate, e la scadenza del Kali Yuga [l’Età del Ferro di Virgilio] sarà vicina, un aspetto di quel divino Essere che esiste di sua propria natura nel personaggio di Brahma ed è anche il principio e la fine [l’Alfa e l’Omega]… discenderà sulla terra”.
 
Come riportano i suoi più antichi biografi, Virgilio aderì (fu iniziato) al Neopitagorismo, pertanto i numeri che compaiono nell’Eneide devono essere interpretati secondo l’insegnamento pitagorico. L’Eneide è composta di 12 libri, rispetto all’Iliade e all’Odissea ciascuna in 24 libri il rapporto è 12/11=1/2, un’ottava musicale, per i Pitagorici l’Armonia. considerando che l’Eneide è una forma di Odissea e Iliade in un unico libro,  il rapporto è (24+24)/12=1/4, un’ottava di seconda armonica.
 
Il Numero rettangolare 12 nasce per il raddoppio del Sei, 2x6 = 12. Il Sei è il primo numero perfetto, chiamato dai Pitagorici connubio, perché nasce per moltiplicazione della prima congiunzione di maschio-femmina 3x2. Il numero Sei per natura dà forma alla materia priva di forma, di dare forma stabile all’anima e generare in essa la sua natura, donde il suo nome Esade, di principio di vita[6].
 
Il numero 12 è anche generato da due numeri 3 e 4 della Decade nella forma eteromeca detta oblunga 3x4. Espresso come numero rettangolare eteromeco, è generato dal prodotto di 3x4, un rettangolo i cui lati sono in rapporto ¾ il FA della scala armonica pitagorica.
 
Dodici sono le facce Pentagonali del Dodecaedro che simboleggia il Cosmo con i suoi Dodici segni Zodiacali. Il 12 è impiegato in sistemi di misura di ogni tipo per esprimere unità superiori. Questo numero duodenario è perfetto, per la sua qualità matematica di essere divisibile sia per 2 sia per 3 o per 4,  mettendo in sequenza questi tre numeri si ottiene il 432, il numero chiave per calcolare la durata dei cicli temporali. Il Grande Saros babilonese è 60 Saros, 60x3.600 = 603 = 216.000 anni. In India è il ciclo di Prajapati. Due Grandi Saros 2x216.000 = 432.000 anni, l’Eone di Berosso, il Kali Yuga Indù.

[1] Filolao
[2] http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/il-parco
[3] Julius Evola – I versi d’oro.
[4] Fra i Caldei fra cui Pitagora soggiornò e apprese la scienza astronomica, il numero 60 era il numero di Anu, il Cielo.
[5] Il Grande Anno di Eraclito l’Aion è di 10.800 anni, il numero dei mattoni dell’Altare sacro del Fuoco indù è 10.800. Su indicazioni del Rig Veda, 40 Aion di 10.800 anni, formano il numero base del ciclo di 432.000 anni del Kali Yuga.
[6] Giamblico, Teologia Aritmetica.
ENEIDE

I primi Sei libri dell’Eneide rappresentano una forma di Odissea omerica, e sono in relazione con terre e popoli che vivevano prima dell’ultimo Diluvio. Gli ultimi sei rappresentano una forma di Iliade con sorte opposta a quella omerica quella di rifondare una colonia nell’antica madre patria.
 
Come Omero, Virgilio, da Iniziato ai sacri Misteri, maschera gli avvenimenti remoti e reali, spostandone avanti il tempo e in parte i luoghi. Con questa operazione appagò il potere imperiale di casa Julia, fornendo una discendenza mitica e divina. Virgilio si vantava di avere origini etrusche e probabilmente aveva accesso a documenti o biblioteche che riguardavano il passato, la religione, la mitologia storica degli Etruschi. La leggenda dell’emigrazione di Enea con i Troiani sulle coste tirreniche è etrusca, non romana. I libri sibillini furono sorgente di ispirazione per Virgilio. Al racconto storico sovrappone una storia misterica come fu fatto per Odisseo, un viaggio nello spazio geografico e un altro nello spazio interiore della psiche.
 
Enea che abbandona la città-nazione distrutta, nei racconti di Virgilio, appare a capo di una migrazione troiana verso l’Italia l’antica patria del progenitore Dardano, per iniziare un nuovo ciclo. Le vicende di Enea appartengono alla mitologia occidentale, Snorri Sturlason, uno storico, poeta e politico islandese, nel Prologo della prosa Edda, racconta:
 
Di un mondo diviso in tre continenti: Africa, Asia e la terza parte chiamata Europa o Enea. Snorri racconta anche di un Troiano di nome Munon o Menon, che sposa la figlia del Sommo Re (Yfirkonungr) Priamo chiamato Troan e viaggia in terre lontane, sposa la Sibilla e ha un figlio, Tror, che, come Snorri dice, è identico a Thor.
 
La caduta di Troia, rappresenta la distruzione di un cosmos, la fine di un’epoca.
LE STELLE DELLA PIOGGIA E DEI CATACLISMI
 
 
Elettra, la madre di Dardano, il futuro signore e progenitore di Troia, era una delle Sette figlie di Atlante, una delle Sette Pleiadi e si dice che viveva in Samotracia, dove fu amata da Zeus, con il quale generò Dardano e Iasone. Il mito narra che Elettra dopo la caduta di Troia, per disperazione volle essere trasformata da Zeus in una delle Pleiadi. G. de Santillana - H. von Dechend ci informano che:
 
... negli scolii ad Arato, ove si dice che Elettra, madre di Dardano lasciò il proprio posto fra le Pleiadi dalla disperazione per la caduta di Ilio e si ritirò sopra la seconda stella del timone ... altri chiamano questa stella Volpe... Proclo ci informa che la stella Volpe rosicchia continuamente la correggia del giogo che tiene uniti cielo e terra; il folklore tedesco aggiunge che quando la volpe riusciva nel suo intento, verrà la fine del mondo ... Questa volpe non è altro che Alcor, la piccola stella di tipo z  presso Ursae Maioris ... sono troppe le tradizioni che collegano l’Orsa Maggiore e le Pleiadi con questa o quella catastrofe perché le si possa esaminare tutte[1].
 
Nel Libro Primo dell’Eneide, dopo aver consultato il responso oracolare di Eleno, la flotta di Enea raggiunge la vicina Ceraunia “Ceraunia” - il lungo promontorio albanese di Karaburun che chiude a ovest la baia di Valona; in linea d’aria è il tragitto più breve per raggiungere le coste italiane. La rotta era indicata  dalle costellazioni Arcturum, Hyadas, Triones, Oriona “Arturo, le Iadi, le Orse, Orione”. Eratostene riferisce che “il Bovaro ha quattro stelle che non tramontano mai … e tra i ginocchi una molto brillante chiamata Arturo”. Le Pleiadi scandivano i ritmi delle attività agricole e della navigazione, tanto che il loro stesso nome potrebbe derivare da pleio, “navigo”, indicando, con il loro tramonto primaverile, il tempo propizio per mettersi in mare, oppure da pleos, “pieno, più”. Il loro sorgere e il loro scomparire segnavano date precise per l’uomo protostorico e antico. L’apparizione di queste stelle coincide anche con la stagione delle piogge e con la cessazione della navigazione, cosa che non fa Enea. Ammonisce Esiodo: “Se ti prende il desiderio della perigliosa navigazione bada! Quando le Pleiadi fuggono nel tenebroso mare l’impeto del possente Orione, infuriano i soffi di tutti i venti, non tenere le tue navi nel fosco oceano”. Virgilio nel menzionare questo gruppo di costellazioni allude anche a qualcos’altro, ai cataclismi planetari[2]. Molti popoli antichi localizzavano proprio nelle Pleiadi la cosiddetta Isola di Gorgo dalla quale sarebbero discese le acque del Diluvio, mentre un testo induista, il Mahabharata, le identificava con le mogli dei sette Rishi dell’Orsa Maggiore.
 
Racconti mitici ebraici associano le Pleiadi e Orione con Diluvio, dicono che ancora oggi l’Orsa (Maggiore) insegue le Pleiadi, vuole i suoi piccoli, due stelle tramite le quali si sono chiusi due buchi nel cielo da cui dovevano scendere le acque del diluvio celeste, ma non riuscirà ad averli fino alla fine dei giorni. Probabilmente i due gruppi di stelle hanno polarità elettromagnetica tale che un loro ravvicinamento è in grado di provocare grandi cataclismi.
 
Come mai nello scudo di Achille sono rappresentate le Pleiadi, le Iadi, Orione e l’Orsa? Il mito narra che le Pleiadi erano inseguite e perseguitate dal cacciatore Orione. I racconti mitici narrano che Orione, figlio di Poseidone il Dio dell’Oceano, era un bellissimo Gigante che aveva il potere di camminare sulle acque, ed era noto anche sotto il nome di colui che produce l’acqua, poiché la costellazione di Orione porta le piogge sia quando si leva in cielo sia quando tramonta. Le Iadi sono le sorelle delle Pleiadi. Il Libro misterico di Giobbe menziona e in qualche modo collega insieme Orione, le Pleiadi e il Bovaro o Guardiano dell’Orsa Maggiore:
 
9:9     È il creatore dell’Orsa, d’Orione, delle Pleiadi, e delle misteriose regioni del cielo australe.
38:31 Puoi tu fermare il dolce influsso delle Pleiadi o slegare la cintura di Orione (I Tre Re)?
38:31 Puoi tu far spuntare a suo tempo la stella del mattino, puoi guidare l’Orsa insieme con i suoi figli?
 
I vincoli di Orione sono le tre stelle della sua cintura. La stella del mattino è Sirio. La frase guidare l’Orsa e i suoi figli è un riferimento al Guardiano dell’Orsa, cioè la stella Arturo in greco Ἀρκτοῦρος (Arktôuros) il cui significato è il derivando da ἄρκτος (árktos), orso più οὖρος (ôuros), guardiano Arturo è la stella più luminosa nella costellazione del Bovaro, Boote, raffigurato come un uomo che ha in mano un guinzaglio con cui guida i cani.
 
La mitica fuga di Enea da Troia che si riferisce agli antenati antidiluviani degli Etruschi, che tanta importanza riveste nella tradizione Etrusca e Romana, si ritrova a livello archeologico, praticamente in Etruria e nel resto dell’Italia. Il fatto fondamentale è che la maggioranza del materiale è stata rinvenuta in Italia, soprattutto in Etruria; e dalla stessa regione proviene, verosimilmente, gran parte di quello di origine sconosciuta. Dei trentacinque vasi che narrano le vicende di Enea, uno solo è stato trovato in Grecia, dodici sono stati rinvenuti in Etruria, sei nell’Italia Meridionale, quattro in Sicilia.
 
 
LA FLOTTA NELLA TEMPESTA E SUCCESSIVO ARRIVO IN LIBIA
 
 
Nell’Eneide, Libro I, 70, è narrato che dopo Sette anni dalla distruzione di Troia mentre i profughi stanno veleggiando nel Mar Tirreno, al largo della Sicilia, la Dea Giunone li vede, e al colmo dell’ira, si reca in Eolia, patria dei Venti, da Eolo che li custodisce tenendoli rinchiusi in un otre all’interno di un massiccio montuoso, per chiedergli di scatenare una tempesta. Giunone fa un dono a Eolo: “Io ho “bis septem”, due volte sette Ninfe di corpo formoso di cui quella più bella d’aspetto, Deiopea, legherò di unione stabile e donerò speciale, che tutti gli anni passi per tali meriti con te e ti renda padre di bella prole”. Due volte sette, cioè quattordici, è il numero di una mezza lunazione (i 14 giorni di maggiore illunazione) che identifica Giunone come Dea della luna piena.
 
Le navi di Enea sono in balia di una tempesta scatenata da Eolo per conto di Giunone, affondano le navi dei Lici alleati dei Troiani. Intanto Nettuno s’accorse che il mare era sconvolto da grande rumore e che la bufera era scatenata e dai profondi abissi le acque erano agitate, chiama a sé Euro e Zefiro, poi parla così: “Forse così tanta sicurezza della vostra razza vi sostenne? ormai senza il mio volere osate sconvolgere cielo e terra, venti, e alzare così grandi masse? … Dite al vostro re: non a lui fu dato il potere del mare ed il severo tridente… spazza via le nubi raccolte e riporta il sole. Cimotoe insieme e Tritone sforzandosi disincaglian le navi dallo scoglio aguzzo; lui le alza col tridente apre le vaste Sirti e placa il mare.
 
Cymothoe Cimotoe è una Nereide. Tritone, figlio di Poseidone, inizialmente era raffigurato con il corpo di un uomo con una coda di delfino, con Nereo e Proteo rappresentava un altro Vegliardo del Mare. Nella “Gigantomachia”, lo vediamo combattere a fianco di Poseidone. Fu lui a far recedere le acque del Diluvio mentre Zeus appagato restituiva la Terra agli uomini. Tritone è associato al Diluvio universale e al Dag o Oannes dei babilonesi, che insegnarono la sapienza ai mortali.
 
Forse non è un caso se Virgilio abbina Tritone e la zona della Sirte poiché, secondo Erodoto, nel prospiciente entroterra, sarebbe esistito un fiume ed un lago Tritonide, retaggio di una civiltà pre-sahariana cui non sarebbe estraneo il mito di Atena Tritonia.
  
I geologi fanno riferimento a Strabone e a Plinio quando sostengono che la Libia un tempo era un enorme mare interno chiamato Lago Tritone, confinante ad occidente con la catena dei monti dell’Atlante ad Oriente con l’Egitto. Tritone era considerato figlio di Poseidone e di Anfitrite, entrambi Dèi del mare aperto e non dei laghi paludosi. Tutta la regione, dove ora si trovano i deserti, era un tempo coperta dal mare: lo hanno fatto sapere per primi Erodoto, Strabone, Plinio ed altri, e in secondo luogo la Geologia.
 
Il Lago Tritone citato dagli storici, era a sua volta ciò che restava di un immenso golfo marino che si estendeva dal Sudan sino all’oceano Atlantico. L’esistenza di questo mare interno che altro non sarebbe che la rimanenza del ben più grande Mare del Sahara è confermata da Erodoto[3].
 
La forsennata Pentesilea “Penthesilea furens”, mitica regina delle Amazzoni che in altri miti si narra che accorse a Troia come alleata di Priamo nel decimo anno del conflitto troiano, a seguito della morte di Ettore. Si racconta che Pentesilea avesse inventato lascia da guerra e l’alabarda. Non è un caso se il popolo matriarcale delle Amazzoni (dotate dei caratteristici “scudi lunati”) sia stato accomunato ai Troiani. In un mito Ercole affrontò le Amazzoni Libiche e fondò una città di Ecatompilo, nella Numidia meridionale. Le Amazzoni vivevano su una grande isola chiamata Espera, cioè Occidente, situata nel mezzo della palude di Tritone, chiamata così perché alimentata dal fiume Tritone, in prossimità del monte Atlante.
 
Diodoro Siculo scrisse che il Mare di Tritone fu svuotato di tutte le sue acque in una sola notte, in seguito ad un cataclisma che scrollò le colonne d’Ercole, distrusse l’isola che stava oltre ad esse (Poseidone) e fece innalzare il livello del mare Mediterraneo in modo impressionante.
 
Un altro mitico viaggio o odissea è narrato da Erodoto[4] quanto sostiene che la nave  Argo venne trascinata dai venti sulle coste della Libia e trascinata nel Lago Tritone. Tritone assunse un ruolo rilevante nel mito degli Argonauti, soccorrendo gli eroi durante la navigazione. Infine la nascita di Atena veniva localizzata in due luoghi, in Libia sul lago Tritone e a Creta.
 
Nettuno cioè Poseidone interviene placando i venti e in Libia approdano solo 7 navi superstiti. La flotta riesce così ad ancorare sulla costa d’Africa, golfo della Sirte, in Libia, a sud di una nuova città che sta venendo costruita, Cartago, scrive Virgilio, fondata dai Fenici emigrati dalla propria terra al seguito della regina di Tiro, Didone. Syrtis la Grande e la Piccola Sirte sono due larghi golfi (oggi Sidra e Gabes: il primo di bassi fondali ed il secondo di coste rocciose).
 
Enea sale su un’altura per ricercare con lo sguardo i superstiti: scorge un branco di cervi e ne uccide Sette, dividendoli poi tra i compagni; rincuora gli stessi e ricorda il destino che li attende nel Lazio. I Cervi in Africa appaiono decisamente fuori luogo. Le pitture rupestri di Tassili in Algeria testimoniano che, là dove oggi c’è deserto, nel Neolitico si praticavano l’agricoltura e l’allevamento, ciò vuol dire che dove ora c’è il deserto, in un passato preistorico c’era un clima rigoglioso.
 
Enea con pochi compagni e con il figlio, si diresse verso la città, nella quale fervevano i lavori di costruzione di edifici, strade, templi. Lungo la strade vede un segno divino 12 cigni, il cigno la cicogna erano simbolicamente i Dardani, la stirpe a cui apparteneva Enea. Dodici sono i libri che compongono l’Eneide. Enea fu avvolto da una nube[5] prodigiosa che gli permetteva di non esser visto, e così giunse fino al trono dal quale la regina Didone esercitava la giustizia e impartiva ordini. La regina offre un importante banchetto ai Troiani e invita Enea a narrare in quella sede le sue traversie.
 
Troviamo ripetuto tre volte il numero sette, negli anni in mare e nel numero delle navi superstiti e nel numero dei cervi che sfamano gli esuli troiani, e due volte sette nel numero delle Ninfe di Giunone. Il numero Sette, chiamato dai Pitagorici settade, è il “veicolo di vita”. Il cuore dell’uomo che è considerato la dimora dello Spirito è segnato da una Croce. Nel cuore, vi sono Quattro cavità inferiori e Tre divisioni superiori, per un totale di Sette. Il numero Sette era chiamato dai Pitagorici colui che conduce a termine, perché conduce a termine il parto di 7 mesi. Nelle malattie 7 è il momento critico. È momento giusto perché il 7 contiene azioni di breve durata nei momenti critici di passaggio alla salute o alla malattia, alla generazione o alla corruzione. Virgilio nomina nell’Eneide Hesperiam, Esperia, cioè l’Italia, per ben 14 volte cioè due volte sette. Esperia Nome con cui i Greci originariamente designarono le terre occidentali (Εσπερία «occidente»), poi, con il tempo fu intesa, ora l’Italia ora la Spagna. Le Esperidi erano figure della mitologia greca e secondo le leggende custodivano il giardino dei pomi d’oro di Era; le più antiche le considerano figlie della Notte, e di Erebo. Ogni autore le colloca geograficamente nell'estremo Occidente del mondo ed oltre i confini della terra abitata, oltre le colonne d'Ercole. Pertanto la primigenia Esperia era situata ad occidente oltre le colonne d’Ercole.
 
Nel Libro II Enea alla corte di Didone narra la caduta di Troia. Anchise il padre di Enea vuole allontanarsi dalla città in fiamme e convince il figlio che voleva fermarsi a combattere. Enea prende in spalla il padre, perché menomato al piede, e per mano il figlio Ascanio, ma nel lasciare la città si accorge che la moglie Creusa non è più con loro: decide quindi di tornare a cercarla, ma questa le appare come un fantasma e lo esorta a fuggire da Troia.
 
Nel libro III Enea trova scampo ad Antandro, ai piedi del monte Ida, caro agli Dei, dove si sono rifugiati altri Troiani. Il Monte Ida fu teatro di molti eventi, di cui il più famoso è il giudizio di Paride. Sulle pendici del monte Ida fu celebrato il matrimonio di Zeus-Giove e di Era-Giunone. Apollo vi custodì gli armenti del re Laomedonte. Enea vi si rifugiò dopo la caduta di Troia portando con sé il Palladio. Zeus vi rapì Ganimede. Vi era un monte Ida anche a Creta, luogo pelasgico. Nella grotta del Monte Ida, vuole la tradizione che in epoca minoica i re dell’isola designati al comando, prima di salire al trono venissero condotti per un rito iniziatico che assicurava loro la veggenza, proprio come era stato per il mitico Minosse. Qui il candidato doveva restare al chiuso della grotta per il lasso temporale di un intero mese lunare, cibandosi e dissetandosi solo dei licheni e funghi e dell’acqua che percolava dalle pareti. Alla fine della prova aveva raggiunto la sapienza necessaria a regnare, in un’epoca quando il sovrano era anche gran sacerdote. Si racconta che anche il Pitagora di Samo, da giovane approdò a Creta, e volle sottoporsi all’impegnativa prova iniziatica ai misteri dei Daktili Idei nell’antro cretese. L’episodio è narrato nelle opere dei pitagorici di tarda età ellenistica, come Giamblico e Porfirio. Qui è descritto l’antro delle ninfe ove i Feaci depongono Ulisse addormentato ed Omero fa cenno ad un duplice accesso alla grotta: uno per la divinità, l’altro per gli uomini. Poiché Porfirio interpreta il mito in chiave esoterica, egli individua in Omero la rivelazione di una sapienza arcaica ed il senso misterioso dell’allegoria. L’antro delle ninfe è il mistico specchio che nel fisico riflette il tema metafisico. Possiamo affermare che la preparazione del viaggio di Enea appare sotto una luce iniziatica.
 
Qui ai piedi del sacro monte, durante l’inverno, Enea fa costruire una flotta di venti navi sulle quali, al principio della primavera, s’imbarcano tutti i profughi di Troia, salpando da Antandro.
 
Il numero delle navi costruite dai troiani è 20. Leggendo da un punto di vista razionale non si comprende come senza mezzi furono in grado di costruire navi capaci di navigare nel mare tempestoso. Il numero è la somma di due Tetractis, due numeri triangolari uguali del 4° ordine. Il 20 è un numero rettangolare che si può esprimere come numero generato dai numeri 4 e 5 contenuti nella mistica Decade, in forma eteromeca, o oblunga, cioè un rettangolo con un lato di una sola unità in più rispetto l’altro, 4x5.  Eseguendo anziché il prodotto 4x5, il rapporto 4/5, si trova il MI della scala armonica naturale di Archita. Il numero 20 è particolarmente legato al numero 4, la divina Misura. Quattro è il rapporto tra i libri di Omero e quelli di Virgilio.
 

[1] G. de Santillana - H. von Dechend, Il Mulino di Amleto, Adelphi.
[2] Vincenzo Pisciuneri ““Nascita e morte di un Kosmos - Troia”.
[3] Erodoto, IV, 175 -180.
[4] Le storie, Libro IV,177, 180.
[5] La Nube era considerata da S. Paolo (I Lettera ai Corinzi, X) e nei Libri ebraici dell’Esodo (cap. IX) e dei Numeri (XIV) come simbolo di protezione.
LICURGO - LA VITE - IL MIRTO - POLIDORO
 
 
Enea con i sopravvissuti porta con sé le statuine che rappresentavano i Penati e i Grandi Dèi. Nell’antica Roma i Penati privati proteggevano la famiglia, i Penati pubblici proteggevano lo Stato. Esotericamente essi fanno parte a quella categoria di Grandi e misteriosi Dèi che, assumono vari nomi: Kabiri, Kureti, Dioscuri, ecc. e con questa brano Virgilio riafferma l’antica e misterica affiliazione al culto kabirico.
 
Esule sono portato al largo, coi compagni, il figlio, i Penati e i Grandi Dèi.
 
Giace lontano una terra sacra a Marte dai vasti campi - la arano i Traci -, regnata un tempo dall’aspro Licurgo, antico ospizio per Troia, coi Penati amici, mentre durò la fortuna. Sono portato qui e sulla curva spiaggia pongo le prime mura, approdato con fati ostili. Dal mio nome formo il nome di Eneada.
 
Le navi giungono in Tracia, nell’antica terra sacra a Marte, amica di Troia, ma Virgilio in modo sibillino aggiunge che era anche la terra dell’aspro Licurgo. Nell’Iliade (VI, 30) Omero rappresenta Dioniso, messo in fuga da Licurgo il quale ha cacciato e percorso le sue nutrici. Dioniso si rifugia nell’oceano nel seno di Teti (la futura madre di Achille), e Zeus punisce l’empio accecandolo. Le nutrici  del Dio potrebbero essere le Pleiadi o le Iadi. Il mito ci narra che i due gruppi di sette sorelle erano inseguite da Orione. Le Pleiadi e le Iadi sono le stelle della pioggia e del Diluvio. Nell’Odissea (XI, 325) un passo oscuro dove si accenna l’abbandono di Arianna, amata da Teseo e la sua uccisione compiuta da Artemide per volere di Dioniso.
 
Licurgo, si oppose violentemente a Dioniso, e venne per questo dal dio punito, facendolo impazzire. Colto da furore colpisce con la sua ascia bipenne quelle che credeva le viti di Dioniso, ma in realtà colpisce a morte il figlio, solo dopo l’omicidio egli riacquistò la ragione: il Padre ha ucciso il figlio. Nella città portuale tessalica di Pagase il dio era venerato col titolo di Pèlekys, Dioniso “doppia scure”, cioè ascia bipenne: lo strumento era l’arma sacrificale con la quale si compiva l’uccisione del dio in forma di vitello o di toro. Il succo rosso dei grappoli della vite era in realtà il sangue del figlio. Le sue terre, intanto, erano divenute sterili e l'oracolo suggerì che avrebbero ritrovato la fertilità solo se Licurgo fosse stato squartato. I suoi sudditi lo condussero allora sul monte Pangeo, dove lo legarono a quattro cavalli che, spinti in direzioni opposte, lo fecero a pezzi. Penteo è lacerato dalle donne (baccanti) la passione del Dio si compie in cielo con Zagreus e in terra con Penteo, Orfeo[1] e Licurgo di Tebe e Orfeo dalle donne di Tracia. Penteo, Licurgo, Orfeo sono diventati gli empi negatori del culto di Dioniso, e pertanto colpiti dalla vendetta del dio. L’episodio è in relazione con i culti misterici del Dio.
 
L’appellativo di Dioniso Eriphos, designa l’aspetto “capretto”, che  riflette il mito giovanile di Dioniso sbranato dai Titani, fatto a pezzi e poi messo a bollire. Zeus, attratto dall’odore, apparve e col fulmine impedì ai Titani di consumare il pasto, sostituendolo con il capro sacrificale. A questo animale si riferisce anche il culto di Dioniso Melànaigis, il dio “con la nera pelle di capra”. Ricordiamo anche il brano della Genesi in cui Abramo si accinge a sacrificare il figlio Isacco, ma poi il suo posto fu preso da un agnello sacrificale.
 
Dioniso era figlio di Zeus e di una donna mortale Semele, figlia del re di Cadmo. Zeus quando andò a trovare Semele con “il suo fulmine” la incenerì, non potendo essa sopportare il Fuoco Elettrico del Dio. Dove era stata incenerita la donna nacque una vite simbolo di Dioniso. Zeus salva il bimbo ancora immaturo e lo nasconde nella sua coscia cucendolo come in un utero paterno. La folgorazione di Semele[2] madre di Dioniso e la sua nascita sono ricordate dall’epiteto Pyrìgenos, "nato dal fuoco" o "dalla folgore"; e Bròmios, Dioniso "rumoroso", il dio del "tuono" (bròmos), rievoca l’evento che accompagnò la sua nascita (così è invocato spesso nelle Baccanti). Dioniso è il Sole di mezzanotte, il Sole del culto ctonio collegato alle folgori e alle forze telluriche, ai vulcani. La folgorazione di Semele è ricordata dall’epiteto Pyrìgenos, "nato dal fuoco" o "dalla folgore"; e Bròmios, Dioniso "rumoroso", il dio del "tuono" (bròmos), rievoca l’evento che accompagnò la sua nascita (così è invocato spesso nelle Baccanti). Dioniso è l’Apollo ctonio, sotterraneo, o notturno.
 
Enea s’accinge a fondare una città, da chiamarsi Aeneadae. Nei tempi antichi quando i soldati partivano per fondare una nuova colonia si cingevano il capo con una corona di mirto come buon augurio, ma quando Enea strappa i primi due rametti dall’arbusto di mirto, da essi sgorga nero sangue; e quando ne strappa il terzo, un gemito umano sale dalla duna di sabbia su cui il mirto è cresciuto (Aen. 3, 39-46). È Polidoro, l’ultimo figlio di Priamo, che secondo i tragediografi e i poeti latini il padre aveva mandato per sottrarlo alla guerra, con molto oro presso Polinestore, re di Tracia, il quale aveva sposato la figlia primogenita di Priamo, Iliona. Il re, vista la cattiva sorte toccata a Troia, aveva ucciso Polidoro per impadronirsi delle ingenti  ricchezze che aveva portato con sé. Nell’Iliade, Omero narra che Polidoro fu ucciso da Achille, ma Virgilio riprende altre versioni del mito.
 
Secondo una antica tradizione, che Dionigi di Alicarnasso attribuisce ad Ellanico di Lesbo (V sec. a.C.), Enea, dopo la rovina di Troia, attraversò l’Ellesponto e si recò nella vicina penisola di Pallene, nella Calcidica, dove fondò la città di Eneia. “L'abitava”, dice Dionigi, “un popolo di origine tracia, che si chiamava Cruseo, ed era stato il più animoso fra tutti i popoli che erano intervenuti in favore dei Troiani durante la guerra [...]”. “Alcuni”, continua Dionigi, “fra cui Cefalone di Gergis (III-II sec.a.C.), sostengono che Enea finì lì i suoi giorni”[3]. In questa testimonianza Dionigi afferma che Enea fondò una città a cui diede il suo nome e che lì terminò i suoi giorni. Come mai Enea si ferma in quella regione? Ancora al tempo di Ellanico, la maggior parte della popolazione della penisola Calcidica era costituita da Pelasgi discendenti di quei Tirreni che abitarono Lemno ed Atene[4], cioè da popolazioni che praticavano un culto kabirico.
 
Riprendendo la narrazione di Virgilio, apprendiamo che dal corpo di Polidoro, morto ingiustamente, è nato un mirto. La pianta del mirto era associata a divinità femminili come Astarte e Afrodite che, secondo Ovidio, non appena emerse dalla spuma del mare si nascose dietro un cespuglio di mirto ed utilizzò i suoi rami per coprirsi. Roma era considerata “la città del mirto”. Tito Livio scrive che Roma nacque nel luogo dove crebbe per la prima volta il mirto. Il mirto era considerato anche una pianta funeraria, ne crescevano boschetti nell’Ade: il mirto accompagnava, quindi, l’uomo dalla nascita alla morte. Virgilio prima cita Licurgo che uccide il figlio credendolo una vite con i grappoli d’uva. Poi Polidoro simbolicamente trasformato in un cespuglio di mirto che sanguina se un ramo viene reciso.  La pianta della vite e quella del mirto sono in uno studio di Sergio Casali[5] simbolicamente accostati. Il mirto sacro a Venere possiede la particolarità di generare bacche dal succo rossastro, simile a sangue; per questo i suoi frutti sono detti cruenta. Il succo rosso dei grappoli della vite è teologicamente assimilabile al sangue come avviene nel mistero cristiano.
 
Polidoro, trasformato in mirto, esorta Enea a lasciare quella terra maledetta. Enea, rese solenni esequie all’ (spettro) di Polidoro e lasciò subito quel “litus avarum”. Virgilio dirotta Enea e le cicogne troiane dagli antichi lidi, non gli è permesso di fondare in quei luoghi una nuova famiglia razziale. Il cespuglio di mirto comparirà per gli esegeti latini dove sarà fondata l’urbe, la città di Roma.
 

[1] Il mito fu elaborato da poeti i quali non sono a conoscenza delle ragioni teologiche ed esoteriche che determinano lo strazio di Orfeo.
[2] Il nome di Semele è attinente a ctonia, la sotterranea.
[3] Alberto Palmucci - La leggenda troiana in Etruria.
[4] Tucidide, La guerra del Peloponneso, IV, 109.
[5] Sergio  Casali - "La vite dietro il mirto: Lycurgus, Polydorus e la violazione delle piante in Eneide 3," Studi Italiani di Filologia Classica IV ser., 3 (2005) 233-50.
 
 
 
DELO E CRETA
 
 
I Troiani riprendono il mare dirigendosi verso Delo, l’isola sacra ad Apollo. Sacra in mezzo al mare giace una terra gratissima alla madre delle Nereidi e a Nettuno egeo, che errante intorno alle terre e alle rive il dio arciere pietoso avvinse all'eccelsa Mikonos e a Gyaros, e diede che fosse immobile e spregiasse i venti. Secondo il mito Apollo rese stabile l’isola di Delo - fino allora isola vagante - affiancandola nel mare all’attuale isola di Mikonos, presiedendo l’operazione dalla cima dell’isola di Gyaros. Per quale motivo però Apollo avrebbe presieduto dalla lontana Gyaros, non è dato sapere.
 
Sono accolti benevolmente dal re Anio, vecchio amico di Anchise. Anius “Anio” al contempo re e sacerdote di Apollo, ha una strana relazione con la storia dell’isola, nacque sull’isola di Delo, dopo aver vagato sul mare, come un tempo l’isola, nel grembo materno dentro una cesta. La madre di Anio era stata bandita dal nonno non credendola incinta di Apollo. Apollo si prese cura del bambino Anius per lungo tempo, insegnandogli le arti della divinazione e della profezia. Enea e Anchise si recano ad interrogare l’oracolo del dio, la risposta dell’oracolo - manifestatasi dopo un terremoto e con una voce venuta su dall’adito del tempio - è sibillina come da tradizione: “cercate l’antica madre” (antiquam exquirite matrem) è la risposta dell’oracolo apollineo. Meglio ancora sarebbe dire, dell’oracolo tellurico, considerata la modalità con la quale il vaticinio è stato reso.
 
Allora il padre, volgendo i ricordi degli antichi eroi, "Udite, o capi" disse, e apprendete le vostre speranze.
 
Giace in mezzo al mare isola del grande Giove, Creta dov'è il monte Ida e la culla della nostra gente. Seguendo il consiglio di Anchise, i profughi si recano a Creta, da cui era partito Tèucro, progenitore dei Troiani. Diodoro siculo la frase che “tutti gli Dei vengono da Creta” Creta è dunque la sede della stirpe troiana, per esplicita ammissione di Anchise!
 
Da Creta venne la Madre divina del Cibele, i bronzi dei Coribanti e il bosco sacro dell’Ida, da Creta l’abitudine di celebrare in silenzio i sacri misteri, da Creta i leoni aggiogati che trascinano il carro della grande regina. Avanti allora, seguiamo gli ordini degli Dèi, muoviamo dove ci guidano! Pacifichiamo i venti, andiamo ai regni di Cnosso. Non sono molto lontani: col favore di Giove la flotta approderà alla costa di Creta nell’alba del terzo giorno”.
 
I Coribanti vengono spesso identificati con altre collettività mitiche quali: Cureti, Dioscuri, Anacti, Dii Magni, Lari, Penati, Mani, Dei Dactyli, ecc. Figli della Dea Cibele, erano stati trasferiti dalla madre in Samotracia, la sede dei Misteri.
 
Al terzo giorno di navigazione Enea e i suoi sbarcano sulle “antiche spiagge dei Cureti” i sacerdoti della Grande Madre. ”Voghiamo verso Creta e verso i nostri antenati! Un vento nato da poppa seconda la nostra corsa, finché giungiamo alle spiagge antiche dei Cureti”. Creta è anche l’isola di Minosse e del Labirinto costruito da Dedalo. Nel libro V Virgilio descrive questo rito misterico effettuato dal figlio di Enea, in occasione dei giochi funebri in onore del padre Anchise: “Giri e rigiri, di fughe e scaramucce, di difficili passi intrecciati ... Si dice che un tempo nella nobile Creta il Labirinto tra oscure pareti racchiudesse un cammino tortuoso e intricato con mille meandri … (585)”.
 
Quando i Romani nella loro espansione in Oriente conobbero questi Grandi Dèi e i celebri santuari nei quali erano venerati, memori della loro discendenza dai Troiani essi identificarono i Cabiri con i Penati, che, insieme ai Lari, che Enea, per consiglio di Ettore, aveva portato con sé fuggendo da Troia e che poi gli apparvero in sogno, indicandogli la rotta da tenere per giungere in Italia (Eneide, III, 148). Enea poi celebra un sacrificio in loro onore nelle forme che sarebbero state proprie del rito domestico dei Romani (En., V, 62) e quando è ormai in vista delle coste laziali li invoca con solenne commozione: “O fidi Troiae salvete Penates!” (En. VII, 121).
 
Quando Ascanio, figlio di Enea, fondò la città di Alba Longa vi trasferì i Penati, ma questi per ben due volte, durante la notte, abbandonarono la nuova dimora e tornarono al loro sacrario di Lavinio (come testimonia Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, I, 67), il quale avvalora l’identificazione dei Penati con Cabiri di Samotracia. Ascanio comprese così che essi volevano rimanere in quel luogo, e lì rimasero in un santuario che era visitato da tutti gli alti magistrati dello stato romano al momento della loro entrata in carica.
 
Anche in Roma ebbero, oltre al culto presso i focolari domestici[1], dove erano venerati insieme a Vesta, un tempio sulla via Velia dove erano rappresentati come una Coppia di divinità giovanili, con aspetto somigliante ai Dioscuri, con abbigliamento militare armate di lancia (Dionigi di Alicarnasso, Ant. Rom. I, 68; G. Solino, Collectanea rerum memorabilium, I, 22). Il tempio nel 167 a. C. fu colpito da un fulmine (Livio, Ab U. C. XLV, 16) e nel 165 a. C. le sue porte si aprirono da sole durante la notte (Giulio Ossequente, De prodigis, 13).
 
Come i Coribanti e Kabiri, i Cureti sono sacerdoti della Grande Madre, le loro danze e il frastuono delle armi battute contro gli scudi ricordano i riti dei Salii sacerdoti romani. “In fretta subito qui costruisco le mura della città sognata, la chiamo Pergamèa e esorto la mia gente, lieta di questo nome, ad amare i suoi nuovi focolari, ad alzare intorno alle nuove case una cinta murata.” Subito si mettono al lavoro per fondare una nuova città da chiamarsi Pergamèa, il cui nome indica una rocca, una cittadella e per i Troiani ricordava la fortezza di Troia. Virgilio utilizza vari racconti mitici greci che volevano Enea fondatore di molte città.
 
Come nella precedente tentativo di fondazione di Eneada, anche questo secondo tentativo doveva fallire. Infatti, scoppia una terribile pestilenza che danneggia uomini, animali e mèssi. Convinti d’avere sbagliato, gli esuli decidono di abbandonare anche quel luogo. Le sacre statue degli Di, e i frigi Penati, che Enea aveva portato via da Troia tra le fiamme della città, parvero presentarsi in sogno allo sguardo, mentre giaceva, in molta luce, dove la luna piena si riversava per le finestre aperte. L’apparizione notturna avviene nella piena luce lunare, a denotare il carattere della manifestazione preternaturale. Le immagini gli parlano sì per volontà di Apollo. Apollo non ha ordinato di fermarsi a Creta. V'è un luogo, i Greci lo chiamano con il nome di Esperia, antica terra, potente d'armi e di feconde zolle; la abitarono uomini enotrii; ora si dice che i figli abbiano chiamato Italia. Enea informa Anchise del sogno divino. Così facendo Virgilio manifesta che il vero capo della spedizione era proprio quest’ultimo: è infatti Anchise che ordina di partire dalla Troade.
 
Una tempesta gigantesca che spinge i troiani alle Strofadi. Appena sbarcati, affamati, razziano le giovenche delle stesse Arpie e se ne cibano. Le temibili donne-uccello disgustose e repellenti si vendicano assalendo il banchetto dei Troiani. Altro banchetto e medesimo risultato; terzo banchetto, stavolta con battaglia, Enea ordina ai suoi di reagire con le armi. Le terribili creature sono così messe in fuga, al che Celeno, il cui nome significava oscurità, la loro regina, assisa su un’altissima rupe quasi fosse su un seggio di tribunale lancia ai Troiani una maledizione profetica. “Laomedontidi…”, cioè discendenti da quel Laomedonte che dopo avere assunto a Apollo e Nettuno per costruire le mura della sua Troia, non diede quanto pattuito, cioè i Due Cavalli Alati. Guerra vi preparate a portare e a scacciare dal patrio regno le innocenti Arpie? “Sulle coste del Lazio, a causa della mancanza di cibo una terribile fame (dira fames), sarete costretti a mangiare le loro stesse mense (i piatti di farro essiccato su cui di solito si nutrivano)”. È ancora Anchise, l’Efesto Kabiro, che decide della situazione, invocando la protezione dei “grandi numi” - cioè quelli portati da Troia - e ordinando di levare gli ormeggi, avendo propizio il vento del Sud.
  
Le Arpie, figlie di Taumante, il figlio di Ponto (il mare) e di Elettra rappresentano i venti e i fulmini della tempesta che ostacoleranno il viaggio dei Dardani.
 
[1] Mentre i Lari erano gli dei protettori della famiglia, i Penati erano i custodi della casa e dello stato, la “casa comune” del popolo; ma erano spesso accomunati nel culto domestico.
ELENO IL PROFETA
 
Enea poi costeggiò le isole Ionie, il promontorio di Azio e approdò a Butroto nell’Epiro, dove trovò Eleno e Andromaca, che avevano colà creato la loro nuova patria. Eleno, dotato di spirito profetico predice ad Enea: “Attraverserai il vasto mare, e vagherai per lungo tempo nel mezzo del mare”. Eleno predice ad Enea il segno segreto che indicherà il termine del suo viaggio, cioè il rinvenimento del sito della futura nuova Troia: allorché egli vedrà “ingens sus alba” una grossa scrofa bianca sdraiata, intenta ad allattare trenta porcelli. Eleno dona ad Enea le “armi di Neottolemo”, cioè dell’armatura del defunto re Pirro (Neottolemo figlio di Achille), conferendo così ad Enea una regalità. Eleno disse a Enea di recarsi a Drepano, in Sicilia. Poi Anchise dà l’ordine di partire ed a lui Eleno ripete gli avvertimenti dati prima ad Enea.
 
Nelle leggende eneadiche conosciute ma non utilizzate da Virgilio c’è però anche quella della visita dell’eroe troiano al santuario di Dodona. Secondo il racconto riferito da Dionisio di Alicarnasso, Eleno non si trovava a Butroto ma proprio a Dodona, dove lo raggiunse Enea per un consulto.

 
 
NAVIGAZIONE PRESSO LA COSTA SICULA
 
Anchise”, pater e quindi capo della gente eneade, alla vista delle coste italiane compie una libazione. Solo con la morte di Anchise Virgilio fa assumere ad Enea la qualifica sovrana di pater “padre”. Arrivo nei pressi di Cariddi e approdo sulle spiagge dei Ciclopi, presso l’Etna. Nella terra dei Ciclopi Enea e i compagni fanno un incontro inatteso con Achemenide di Itaca, un compagno di Ulisse dimenticato durante la fuga. Anchise gli porge la mano e lo rassicura con chiaro pegno È l’occasione per riprendere e rievocare uno dei racconti più affascinanti dell’Odissea, ma soprattutto per esaltare la magnanimità dei Troiani, che concedono asilo e salvezza a un compagno del loro peggior nemico. Comparsa di Polifemo con l’occhio spento e un tronco di pino che guida la mano, e immediata fuga dei Troiani.
 
Virgilio narra che l’eroe troiano e i suoi compagni, partiti alla volta dell’Enotria o Italia per evitare Scilla e Cariddi circumnavigò la Sicilia, fecero prima una breve tappa a Drepano cioè Trapani in Sicilia, ma il padre Anchise, indebolito dalle fatiche del viaggio morì e fu sepolto ad Erice. Si resero onori funebri ad Anchise  per rendere gli onori funebri ad Anchise, che durarono nove giorni. Il numero nove è quello del compimento del cerchio, del percorso che si chiude su se stesso. Perché Virgilio scrive che Anchise (lo zoppo come Efesto) fu sepolto ad Erice? Astarte la “Grande Madre” fenicia e cananea era venerata ad Erice, a Phyrgi il tempio è Uni-Astarte, anche a Malta, e a Tharros in Sardegna. I suoi sacerdoti erano i “Kabiri” , chiamati anche “efestoi”, figli di Efesto. Anchise figlio di Venere Afrodite era anch’egli un Kabiro. Anche Dedalo, il Kabiro costruttore del Labirinto, fuggendo da Creta si rifugiò in Sicilia.
 
Virgilio allude continuamente alla Grande Madre e al culto del suoi servitori Kabiri, Cureti e Coribanti. L’avo di Enea, Dardano era anch’egli un Kabiro.
 
I Troiani ripartirono verso nord in direzione dell’Enotria, ma una violenta tempesta, scatenata da Giunone (Era), con l'aiuto di Eolo, re dei venti, si abbatté sulle loro navi, che vennero disperse; Enea con solo sette navi riuscì ad approdare sulle coste dell’Africa. E qui alla fine del III libro termina il racconto di Enea.
GLI AMORI DI ENEA E DIDONE
 
 
Il Libro IV narra gli struggenti amori di Enea e Didone. Giove è perentorio e lapidario, molto romano: naviget: haec summa est “che navighi: questo è quanto”. Mercurio scorge Enea intento a “fondar la rocca e costruire nuovi edifici”, un atteggiamento che mal si concilia con chi vuole andar via. Giove ordina a Mercurio di intervenire su Enea, il quale non si cura dei fatis “fati”, e Mercurio ordina ad Enea di lasciare Cartagine.
 
Enea spiega alla regina Didone che non può rimanere, perché è obbligato e continuamente sollecitato dagli dèi e dall’ombra spettrale del defunto padre Anchise che tormenta Enea in sogno ricordandogli i suoi doveri. Anchise è il vero capo della spedizione eneade ed è lui che voleva compiere la missione fatale. Il pio Enea con l’animo travagliato dal grande amore obbedisce tuttavia agli ordini divini affinché la moritura non lasciasse nulla di intentato. Virgilio parla di una Didone “moritura” che tuttavia fa un estremo tentativo per riavere Enea. In realtà è una messinscena a beneficio della sorella. Didone ha già deciso. Il suo amore si è trasformato in odio. Enea fugge nella notte. All’aurora, con la vista del porto vuoto, Didone invoca gli Dèi contro Enea, maledicendolo e augurandogli sventure e poi si uccide pugnalandosi in petto.
 
Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi, et nunc magna mei sub terras ibit imago …
 
Ho terminato la mia carriera terrestre,  l’immagine della mia persona[1], va ora a discendere nel seno della madre terra.[2]
 
L’immagine di Didone che scende nelle regioni dell’Ade, nel seno della Madre Terra, chiamata imago da Virgilio è l’ombra, non l’anima spirituale. Enea ritroverà l’imago o simulacrum della regina Didone nel Libro VI, nell’Ade accompagnato dalla Sibilla Cumana.
 
[1] Il mio spettro glorioso.
[2] Eneide, IV, 654.
ERICE SEGESTA E GIOVE PLUVIO
 
 
Nel Libro V Enea con le navi tiene deciso la rotta, ma il cielo è pieno di enormi nubi minacciose, che danno presagio di un oscuro temporale. Palinuro, il timoniere della nave di Enea, è spaventato e teme che la flotta non riesca ad arrivare in Italia. Accorgendosi che la tempesta sta portando le navi verso le coste sicule, Enea decide di approdarvi. I troiani sbarcano una seconda volta presso Erice dove il re Aceste lietamente li accoglie e offre il suo aiuto. È passato un anno da quando era partito per poi approdare a Cartagine. Enea decide di celebrare la commemorazione del padre Anchise. Invoca i venti e gli onori nei tempi a lui dedicati con un banchetto ai Penati e con i giochi funebri a cui partecipano sia i troiani sia gli abitanti del posto.
 
Giunone, allo scopo di danneggiare i Troiani, sotto mentite spoglie, incitò le donne Troiane a bruciare le navi per restare in Sicilia e ricominciare lì una nuova vita.
 
Enea invoca l’aiuto di Giove il Signore della Folgore, il quale manda una pioggia torrenziale; l’incendio costa la perdita di quattro navi. La conoscenza etrusco kabirica riguardo alle folgori  di Tinia e alla pioggia celeste è stata trasmessa ai romani dal re sacerdote Numa. Sulla colonna Aureliana è raffigurato l’imperatore Marco Aurelio filosofo (Iniziato) che in Germania, assiste seduto su una specie di trono mentre un fulmine[1] colpisce una macchina da guerra nemica, e una pioggia torrenziale travolge l’esercito avversario. Giove, barbuto e con l’aspetto di un fiume, travolge con forti piogge i Quadi, che avevano accerchiato il soldati della Legio XII, salvando i romani e disperdendo i barbari.
 
Dione Cassio (1, 8-10) narra che il torrente d’acqua era stato provocato da Arnufi[2], un sacerdote egizio, al seguito dell’imperatore, che avrebbe invocato il Dio Hermes Thoth, il Dio della Sapienza Misterica. Il sacerdote egizio Arnufi oltre a provocare la pioggia torrenziale si narra che avrebbe anche “folgorato” i barbari.
 
 
figura 1. Colonna Aureliana -  Giove e pioggia torrenziale                                                                           
 
L’incendio distrusse Quattro delle Sette navi della flotta capitanata da Enea. Ritroviamo il numero 4 e per differenza restano ad Enea 3 navi.
 
  • Sette anni prima di giungere in Italia,  e poi Tre anni di guerre.
  • Sette navi prima di giungere in Sicilia, e poi Tre navi per giungere nel Lazio.   
 
Enea non sa se stabilirsi nel luogo o andare avanti e il defunto padre Anchise apparve in sogno ad Enea incitandolo a partire subito. Il vecchio Naute gli consiglia di lasciare lì in Sicilia coloro che non se la sentivano di proseguire permettendo che fondassero una città, che poi sarebbe stata chiamata “Acesta” dal re Aceste, suo fondatore. Essa fu edificata su un isolato altopiano, oggi denominato “Barbaro”, nei pressi del quale scorre il mitico fiume Crimiso. Circa la data della sua fondazione, Virgilio la colloca nel “settimo anno dalla distruzione di Troia”. Il nome Aigesta è attestato da tutte le fonti storiche e letterarie; quello latino è Segesta.
 
Tucidide narra che il principe Elimo (Elymo) insieme ad Aceste e altri troiani fuggiti quando Ilio fu incendiata, presero il mare per trovare salvezza in Sicilia e si fermarono nella regione del Crimiso. Tucide narra ancora che Enea, loro amico, partito da Troia con una ventina di navi e oltre tremila uomini, sbarcò a Trapani; per caso Enea ritrovò Elimo e dato che non vi erano speranze di poter tornare in patria, edificò due città che presero nome Elima ed Egesta dal nome di Elimo e di Egesto, i suoi compagni. Elymo, eponimo degli Elimi di Sicilia, veniva a volte considerato fratello del re sicano Erice, e altre volte fratello di Enea. Gli Elimi con i Sicani che, secondo lo storico Timeo, sono stati i primi abitatori del posto, fondarono le città di Erice e Segesta.
 
Secondo altri è probabile che Enea sia stato il primo a progettare la costruzione di Erice e Sagesta che, solo in un secondo tempo, furono portati a compimento da Aceste e dal suo compagno Elimo, da cui quel popolo derivò il proprio nome, gli Elimi. Pertanto, la fondazione di Segesta spetta tanto ad Enea quanto ad Aceste. Dopo la conclusione della prima guerra punica, Segesta passò sotto il dominio dei Romani, i quali, ricordando le comuni origini troiane (Enea), la dichiararono, nel 225 a.C., “civitas immunis et libera”, cioè le donarono l’immunità dal tributo (Cicerone, Verr. III 6.13) assieme a vasti territori, tra cui forse anche la città di Erice.

[1]Dapprima una saetta ammonitrice, poi una scarica di fuoco celeste, poi gli effetti più disastrosi. Si racconta che l’antica Bolsena sia stata distrutta in questo modo.
[2] Del mago “Arnufi”, un ierogrammatico, il cui vero nome era “Harnouphis”, risulta un’iscrizione di Aquileia in cui si qualifica come “sacro scriba d’Egitto”.
HYPNOS E PALINURO
 
 
Enea informa i suoi che dapprima sarebbe dovuto scendere nell’Ade per incontrare il padre Anchise. Le navi salparono ma  durante la notte il Sonno, Hypnos fa assopire Palinuro, il timoniere della nave di Enea, bagnandolo con un ramo imbevuto di acqua del fiume Lete, che cadde in mare e dopo tre giorni, naufrago fu ucciso su una spiaggia, e a quel luogo fu assegnato il suo nome. Hypnos secondo Omero, dimorava a Lemno, l’isola kabirica. Il vecchio timoniere aveva esaurito il suo compito portando le navi sulla costa italica e per questo si addormentò. Sempre a Hypnos appartengono le Porte del Sonno, nel VI libro, all’uscita dell’Ade. Sonno Hypnos, e morte Thanatos, sono in Omero fratelli gemelli. Mentre il Sonno dimora nell’antro che si affaccia sull’Ade in prossimità del fiume Lete, in cui scorrono eterne le acque dell’oblio, la Morte abita invece il suo tenebroso interno.
 
Omero narra che quanto Odisseo partì dall’isola dei Feaci in una nave guidata dal pensiero fu avvolto nella nebbia e nella nube protettiva[1].
 
Ed essi (i Feaci)  stesero per Odisseo una coperta e una tela di lino sulla poppa della nave, in modo che egli potesse dormire … un sonno profondo cadde su di lui, un sonno dolce simile alla morte …[2]
 
Il sonno dei cinque sensi di Ulisse è elemento necessario per consentire un viaggio che si svolga non lungo una comune rotta marittima, ma nella coscienza. I Feaci donano ad Odisseo un ritorno che nessun mortale gli avrebbe mai potuto donare, né lui da solo avrebbe potuto ottenere. Il mare che Ulisse attraversa rappresenta gli elementi del nostro pianeta: egli passa nel grembo della madre terra, nella placenta della Madre Terra, dove viene avvolto dagli elementi e ricoperto di pelle. Muore e rinasce a nuova vita e questa volta, a differenza della prima nascita, rinasce in piena coscienza.
 
La nave senza timone e timoniere procede sola e tranquilla, proprio come quella di Ulisse. Enea, svegliatosi oltre l’isola delle Sirene, avverte la mancanza del nocchiero: corre subito a prendere il posto dell’amico e ne piange amaramente la morte. In questo racconto il posto di Odisseo è assunto da Enea. Palinuro muore perché il viaggio che Enea si appresta a fare nell’antro della Sibilla è onirico e misterico.
 
Virgilio individua il punto preciso della vicenda: uno scoglio, riconducibile al tratto di costa campano del Mar Tirreno, dinanzi all'omonimo capo, tra il golfo di Policastro e l'insenatura di Pisciotta, nella subregione attualmente chiamata Cilento. Veniva così soddisfatta la richiesta di Nettuno, dio del mare, che nel momento stesso in cui accordava a Venere il proprio aiuto per condurre in salvo la flotta di Enea sulle coste campane, aveva preteso per sé in cambio una vittima (Eneide, V, 815):
 
Unum pro multis dabitur caput.
Una sola vittima per la salvezza di molti
 
Il capo Palinuro, è posto poco più a sud “scopulos Sirenum” gli scogli delle Sirene. Strabone, geografo greco (primo secolo d.C.) identifica negli scogli “Li Galli”, nel tratto di mare antistante Positano, le tre solitarie e rocciose sedi delle sirene. Il nome di "Li Galli" è una chiara reminiscenza delle Sirene nell’arte greca arcaica, dove erano rappresentate come uccelli dal volto umano.
 
Enea e i suoi compagni sbarcano a Cuma, in Campania, dove si reca nel tempio di Apollo, dalla somma sacerdotessa di Apollo Deifobe, la Sibilla Cumana.
 
[1] La nube è il simbolo del pensiero astratto, invisibile, non percepibile alle menti (agli occhi) di coloro che vivono nel mondo dei cinque sensi e del pensiero utilitaristico.
[2] Odissea, XIII, 73 – 80.
DELENDA EST CARTHAGO!
 
 
La rielaborazione del mito di Didone non fu propria solo di Virgilio. Già Ennio e Nevio se ne erano impossessati e come Virgilio lo avevano utilizzato per attuare un aggancio tra leggenda e storia dando implicitamente una giustificazione mitica all’origine delle guerre tra Roma e Cartagine, al presunto "odio atavico" tra i due popoli.
 
Il vecchio Catone, detto il Censore, prima di terminare la sua arringa al senato, ebbe un attimo di esitazione e poi, per l’ennesima volta pronunciò le fatidiche parole: “Delenda est Cathago!”, Cartagine deve essere distrutta. E di conseguenza fu rasa al suolo dai Romani senza pietà e le sue fondamenta ricoperte di sale, affinché nulla su esse potesse mai attecchire. La Biblioteca di Cartagine era famosa come quella d’Alessandria e se non fosse stata incendiata dalle truppe di Scipione, l’umanità avrebbe avuto a disposizione un’infinità di manoscritti, papiri, tavolette cuneiformi.
 
La leggenda narra che Cartagine fu costruita dalla regina Didone, fuggita da Tiro, l’antica città fenicia. Un altro mito (raccontato da Timeo, storico greco del IV secolo a.C., da Giuseppe Flavio, storico ebreo del I secolo e da Giustino, scrittore romano del II secolo) narra di Elissa (o Elishar), principessa fenicia della città di Tiro, figlia del re Belo, sposa del grande sacerdote Sicheo e sorella di Pigmalione. Alla morte del padre assassinarono il suo sposo e minacciata di morte dal fratello. Fugge con la sorella Anna e con molti nobili, le navi fecero una prima tappa all'isola di Cipro. Qui i Fenici rapirono ottanta fanciulle da portare con loro come spose e proseguirono verso occidente. Dopo un viaggio pericoloso nei pressi di Utica (Tunisia) e fonda Cartagine. Il suo nome deriverebbe dal fenicio Qart Hadasht cioè Città Nuova. Virgilio connette la storia di Elissa, per lui Didone, nome che significherebbe “la fuggitiva”, con Enea. Elissa Didone visse nel IX secolo a.C., quattrocento anni dopo la data canonica della guerra di Troia: non può quindi aver conosciuto e amato Enea, come narrato da Virgilio, che come sappiamo costruì il suo poema prendendo spunti da miti e storie antiche.
 
I Greci chiamavano gli abitanti di Tiro con il nome di Fenici, che significa gente dalla pelle di fuoco. Cartagine, fu fondata dai Fenici vanta un passato glorioso. I Fenici, gente dalla pelle di fuoco, si consideravano discendenti dai Tirreni. Lo storico romano Appiano afferma che Cartagine fu fondata 50 anni prima della caduta di Troia, anche perché secondo il mito romano, Enea il progenitore dei Romani, non avrebbe potuto approdarvi. Filisto di Siracusa nel 453 a.C. scrisse che Cartagine nacque 37 o 58 anni prima della caduta di Troia. Eusebio sostiene invece che Cartagine venne fondata 133 anni prima della distruzione di Troia. In definitiva nessuno propone una data esatta.
 
H.P. Blavatsky scrisse che Cartagine risaliva come fondazione, a tempi ben precedenti quelli della caduta di Troia, e che la città rappresentava un’antichissima nobiltà dedita alle scienze e alla speculazione filosofica, erede anche di conoscenze precedenti e preesistenti altamente illuminate. La Biblioteca di Cartagine era famosa come quella d’Alessandria e se non fosse stata incendiata dalle truppe di Scipione, l’umanità avrebbe avuto a disposizione un’infinità di manoscritti, papiri, tavolette cuneiformi. Era dunque una città civiltà brillante in termini di antiche conoscenze. Le carte sopravvissute all’ultimo diluvio possono essere finite nella biblioteca di Alessandria d’Egitto ed in quella di Cartagine, entrambe poi intenzionalmente distrutte da incendi. I Fenici ed i geografi di Alessandria usarono quindi queste carte geografiche. Non può dunque sorprendere il fatto che Cristoforo Colombo, l’ammiraglio Piri Reis, ed altri portolani siano giunti in possesso di documenti tanto preziosi.
 
Tertulliano Quinto Settimio Florente, ci assicura che ai suoi tempi a Cartagine fu trovato un certo numero di giganti a Cartagine.  Non volendo accettare questa informazione possiamo rivolgerci ai giornali del 1858, che parlano di un “sarcofago di giganti” scoperto quell’anno presso quella stessa città. I Giganti erano gli uomini della Quarta Generazione, cioè di un’epoca precedente all’ultima distruzione planetaria attraverso il Diluvio. Platone nel Timeo afferma che gli Atlantidei invasero l’Europa fino ai confini con la Tirrenia, cioè l’Etruria. Il legame fra Atlantide, Fenici, Cartagine, i Tirreni. Diodoro Siculo (I secolo a.C.) - e Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) - collocavano la capitale di Atlantide a Kerne, avamposto cartaginese sulla costa atlantica dell'Africa fondato da Annone il Navigatore.
 
Come si dice nel Buddhismo Esoterico, gli Egiziani, i Greci e i Romani, qualche migliaio di anni fa, erano i “resti degli Atlanto-Ariani”: i primi, cioè, dei più antichi, cioè gli Atlantiani di Ruta; gli altri, dell’ultima razza di quell’isola, la cui improvvisa scomparsa fu narrata a Solone dagli Iniziati egiziani[1].
 
Erodoto c’informa che i marinai Fenici navigarono oltre le Colonne di Ercole, termine ultimo del mondo allora conosciuto, essendo un popolo soprattutto di mercanti facevano di tutto per mantenere il riserbo su quelle rotte misteriose e sui loro nuovi traffici. Un riserbo mantenuto con tanta forza da arrivare ad affondare le navi che seguivano le loro, o, in estrema soluzione, ad autoaffondarsi. Essi circumnavigarono l’Africa, giunsero fino alle Indie, giunsero anche sulle coste dell’America[2] L’ammiraglio cartaginese Imilcone così descrive una sua spedizione oltre le Colonne d’Ercole: ” … Non vi è brezza che spiri guidando la nave, tanto fermo è il pigro vento dell’ozioso mare… alghe dovunque sparse tra le onde impediscono la rotta come fossero rami. Il mare ha poco fondo… mostri marini spaventosi si aggirano nuotando fra le navi che lentamente avanzano…”. Un posto simile realmente esiste nell’Oceano Atlantico, ed è il Mar dei Sargassi, tristemente noto per le alghe (il Sargasso per l’appunto) che lo ricoprono e per le improvvise e durevoli bonacce, che costringevano le navi a vela a fermarsi quasi. Infatti, quella zona è anche conosciuta con il nome di Latitudine del Cavallo, chiamata così dagli Spagnoli che erano costretti, al terminare delle scorte di cibo, ad uccidere i propri cavalli per sopravvivere.

[1] A.P. Sinnett Buddhismo Esoterico.
[2] Questo fatto è documentato dal ritrovamento di monete e iscrizioni fenicie ritrovabili sia nel Nord che nel Sud dell'America.
CUMA E LA SIBILLA
 
Nel libro VI dell’Eneide, Virgilio narra l’incontro di Enea con la Sibilla Cumana, in un antro immenso situato sotto il tempio di Apollo costruito da Dedalo; sulla porta egli aveva scolpito la sua storia: la costruzione del labirinto di Creta, l’imprigionamento e la fuga in volo col figlio Icaro, ma non la morte di quest’ultimo.
 
L’Antro della Sibilla era posto a poca distanza dal Lago vulcanico d’Averno le cui esalazioni solforose emanate uccidevano i volatili che osavano passargli sopra. Virgilio, nel sesto libro dell’Eneide, descrive così il lago d’Averno: “Una spelonca profonda, protetta da un cupo lago e dalle tenebre dei boschi, sopra la quale nessun volatile poteva impunemente avventurarsi ad ali spiegate”. Cuma, come Delfi, sorge in una zona di attività vulcanica. La vicinanza del vulcano Vesuvio, le acque sulfuree il tempio sotterraneo occupato in tempi recenti dalle profetesse di Apollo e di Ecate, le Sibille, collegano il luogo al culto dei Kabiri i misteriosi Dèi del Fuoco
 
A Cuma, dove a sede l’oracolo apollineo della Sibilla, con la cui guida Enea dovrà andare agli Inferi per consultare l’ombra del padre Anchise. Enea chiede alla Sibilla di guidarlo negli Inferi, essa acconsente ma prima lo incarica di celebrare le esequie del suo scudiero Miseno, ucciso da Tritone sulla spiaggia vicino a un promontorio che da lui prese il nome di Capo Miseno: costui aveva osato sfidare gli Dèi ed era stato precipitato in mare dal Dio Tritone. Per Miseno dovrà organizzare i riti funebri e sacrificare animali neri per gli dei infernali.
 
Giunta la notte, Enea celebra assieme alla Sibilla i preliminari riti catagogici sacrificando sette giovenchi e sette pecore nere. Enea deve dunque sacrificare sette animali neri per gli Dèi infernali, i giovenchi di cui non si dice nulla dovevano essere di colore chiaro, opposto a quello scuro delle pecore. Due colombe due volte sette animali, la dualità.
 
Al pari dell’Oracolo di Delfi, anche la Sibilla Cumana era legata al culto di Apollo. L’incontro delle divinità solari Dioniso e Apollo avvenne a Delfo, e la tradizione ci presenta il culto di Dioniso come precedente a quello di Apollo. Al rituale dionisiaco in Delfo fu mantenuto un carattere segreto. In Delfo si è operato il più fecondo connubio di due poli opposti: Dioniso era il Sole in Terra, Apollo il Sole in Cielo. Plutarco  in “De E apud Delphos” narra la sostanziale identità delle due divinità solari come appartenente ad una sapienza esoterica. Dioniso è il Sole dei Morti, il Sole nero di mezzanotte, una divinità catatonica.
 
Noi possediamo tuttavia una tradizione che ben potrebbe servire di insegnamento, seconda la quale Dioniso avrebbe trovata la morte a Delfo, dove si mostrava appunto la sua tomba, considerata una pietra sepolcrale identificata con l’omphalos. Il sepolcro ci indica dunque la discesa di Dioniso entro la terra e il suo ritorno nel grembo della Madre[1].
 
Enea sale sulla sommità del colle di Cuma, dov’era un tempio di Apollo. In realtà la zona era sede di un più antico luogo di culto tellurico oracolare. Il culto di Śuri, l’Apollo infero (Dioniso) legato alla Grande Madre, ha numerose attestazioni in Etruria, la più importante riguarda la cosiddetta Area sud del complesso sacrale di Pyrgi, porto di Caere, nel Lazio, dove Śuri era venerato insieme a Cavtha, con cui formava una coppia corrispondente a quella di Ade e Persefone.
 
Presso il lago Averno era venerata la dea Artemide – Ecate o Diana Nemorensis che aveva sotto la sua protezione l’attività oracolare. Virgilio presenta la Sibilla Cumana con il nome di Deifobe, il poeta mantovano associa al culto di Febo cioè Apollo e a quello di una divinità ctonia, Trivia, cioè Ecate, Diana, cui erano consacrati la grotta, il bosco ed il lago. “Quin protinus omnia perlegerent oculis, ni iam praemissus Achatesadforet, atque una Phoebi Triviaeque sacerdos, Deiphobe Glauci, fatur quae talia regi”(versi 36-37).
 
Come mai Virgilio sceglie Cuma? Per due ragioni, la prima perché era un luogo antidiluviano legato a vicende di popoli antichi, la seconda è misterica. Cuma, situata di fronte alla Sardegna, era una città che aveva rapporti con la Beozia, terra dei misteriosi Kabiri. Gli antichi Tirreni, gli Etruschi erano legati al culto Kabirico. La lingua degli Etruschi è simile ad un’iscrizione trovata a Lemno, un’isola kabirica. Secondo il mito dei Figli delle Tesphiadi, i Tirreni e gli Etruschi, o almeno una parte di essi, provenivano dalla Sardegna che a sua volta in quel tempo remoto faceva parte dell’Atlantide.
 
La Sibilla svolgeva la sua attività oracolare nei pressi del Lago d’Averno, in una caverna conosciuta come l'Antro della Sibilla dove la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture dell'antro, rendendo i vaticini sibillini. La sua importanza era nel mondo italico pari a quella del celebre oracolo di Apollo di Delfi in Grecia.
 
Narra Marco Terenzio Varrone che la Sibilla apparve sotto le sembianze di una donna anziana a Tarquinio Prisco. Plinio scrive che a Tarquinio il Superbo la Sibilla offrì i suoi nove libri profetici, e poiché il re rifiutò, la Sibilla distrusse tre libri e poi gli offrì gli altri sei allo stesso prezzo; Tarquinio rifiutò di nuovo e lei ne distrusse altri tre. Alla fine il re comprò i tre libri rimasti al prezzo richiesto per nove, e i volumi furono posti nel Tempio di Giove a Roma e consultati in situazioni di emergenza. La Sibilla avrebbe raccomandato prima di sparire misteriosamente, che venissero conservate e difese con ogni cura queste istruzioni atte a fronteggiare le crisi future del popolo romano e per questo chiamate “fata et remedia romana” (Servio auct. VI 72). La raccomandazione della Sibilla fu osservata scrupolosamente, infatti, quei libri così legati alla sacralità tanto che sono stati definiti da Cicerone come versi che imprigionano il “furor insanus” di chi “cumanos sensus amisit metre divinos ad secutus est” (Cicerone, div II 54110sg), sono stati sempre protetti, sempre irraggiungibili per la gente comune. I “Libri Sibillini” autentici bruciarono o furono bruciati in un incendio dell’83 a.C.
 
Gli studiosi non sanno se a Cuma sia effettivamente vissuta una persona nota come “Sibilla” benché ai tempi dell’Impero Romano la sua tomba venisse mostrata ai visitatori del Tempio di Apollo. L’Antro della Sibila scoperto dagli archeologi negli anni venti, interamente scavato nel tufo, è lungo 183 m e orientato secondo l’asse N-S, con pozzi luce e cisterne d’acqua. In seguito nel 1932 fu scoperta una seconda grotta lunga 107 metri con 12 (Dodici è un numero misterico) passaggi laterali che si aprono lungo il colle, da cui filtra la luce. Altri archeologi non sono convinti che la grotta scoperta sia effettivamente quella della Sibilla in quanto Virgilio narra di cento porte, le voci della Sibilla e che pertanto occorre proseguire negli scavi.
 
“L’immenso fianco della rupe euboica s’apre in un antro:
vi conducono cento ampi passaggi, cento porte;
di lì erompono altrettante voci, i responsi della Sibilla“.
 
La forma dell’Antro della Sibilla ricorda le costruzioni ciclopiche, e in particolare le tombe dei giganti. A Segni nel Lazio, abbiamo una porta ciclopica trapezoidale nota come “La Porta Saracena”, che per l'imponente grossezza dei massi può ben reggere il confronto con la famosa Porta dei Leoni di Micene, con la quale spesso viene nominata e paragonata. La grande porta che assicura l’ingresso a Machu Picchu protetta da mura ciclopiche è anch’essa di forma trapezoidale.
 
Figura 1. Cuma Antro della Sibilla

 
Orfeo ha suonato la lira per ammansire Caronte e gli altri spiriti infernali che altrimenti lo avrebbero sbranato. Per questa ragione, Enea ha bisogno di una guida. Enea chiese alla Sibilla di Cuma di poter visitare il regno dei morti per poter parlare col padre Anchise. Nell’Ade scendono Teseo, Eracle, Orfeo, Odisseo, ed infine Enea.
 
Il nome che Virgilio attribuisce alla Sibilla è Deifobe figlia di Glauco, anche se era anche nota con altri nomi. È tuttavia interessante la menzione di Glauco, poiché alcuni riferimenti mitologici che vanno sotto questo nome - e principalmente Glauco figlio di Minosse - rimandano chiaramente a Creta e quindi alla “Antica Madre”. Enea, guidato prodigiosamente da due colombe (sacre a Venere), che alle sponde del fetido Averno si posano su un albero (quello con il ramo d’oro).
 
La Sibilla disse che prima avrebbe dovuto procurarsi un ramo d’oro, nei pressi del lago Averno, che può essere colto solo da coloro che ne sono degni. Il ramo, nascosto in una fitta selva, è sacro a Proserpina, la regina degli Inferi. Una volta trovato, si stacca facilmente dalla pianta, se il Fato è favorevole alla sua discesa negli Inferi; se non lo è, ogni sforzo sarà vano. Enea, con l’aiuto della madre Venere, riuscì a trovare e a spezzare il ramo d’oro.
 
L'aspetto a due punte del ramo d’oro, al quale il commentatore dell’Eneide, Servio Mario Onorato, attribuiva la forma dell’Y pitagorica, è un simbolo iniziatico raffigurante una strada o un tronco che si divide in una biforcazione, due sentieri alternativi: quello di destra conduce alla virtù, e nel caso di Enea ai Campi Elisi, quello di sinistra al vizio e alla perdizione, in questo caso specifico al Tartaro.
 
[1] Carolina Lanzani – Religione delfica. I Dioscuri Genova.
INSEGNAMENTO MISTERICO DEL POST MORTEM - L’ADE E I SIMULACRA
 
La Sibilla invoca La Sibilla invoca Ecate ed Erebo prima di accingersi ad entrare nell’Ade; Enea secondo i precetti della Sibilla compie de riti sacrificali, alla Notte e alla Terra, scannano quattro giovenchi, una vacca sterile ed una pecora. Con la grande quantità di sangue raccolta possono esser sicuri di aver stabilito il giusto “collegamento” con il mondo dei simulacra, le ombre dell’Ade.
 
In Omero troviamo che Ulisse evoca lo spirito del suo amico, l’indovino Tiresia. Ulisse sgozza un ariete e una pecora nera, versando il nero sangue fumante nella fossa. Nel preparare la cerimonia della «festa del sangue», Ulisse trae la spada e così atterrisce le migliaia di fantasmi attratti dal sacrificio. Il suo amico stesso, il tanto atteso Tiresia, non osa avvicinarsi a lui finché Ulisse tiene in mano l’arma temuta. (Odissea, V, 82).
 
Enea si prepara a scendere nel regno delle ombre e, appena si avvicina all’ingresso, la Sibilla che lo guida mormora i suoi avvertimenti all’eroe troiano e gli ordina di trarre la spada e di farsi strada attraverso la densa folla di forme erranti: “Tuque invade viam, vaginaque eripe ferrum”. Apriti la strada e sguaina il ferro (Eneide, VI, 260). Enea come fece Ulisse, per allontanare le anime-ombra dei morti dalla fossa deve usare la spada, in quanto il metallo della spada era l’unica cosa di cui questi fantasmi avevano timore, come al contrario, il sangue era l’unica cosa di cui queste larve avessero bisogno.
 
Quanto si apprestavano a fare Enea e Odisseo era solo prerogativa di chi era stato iniziato ai Sacri Misteri ed era sceso vittorioso nella cripta nella morte o era disceso agli Inferi, l’Ade, paragonabili ad un abisso, una cripta un luogo di morte. Psello ammonisce tutti coloro che non sono stati iniziati a cercare il contatto con i simulacra, le ombre.
 
Voi non siete preparati a contemplarle prima che il vostro corpo non sia stato Iniziato, perché per effetto di un inganno costante, esse seducono le anime di coloro che non sono stati Iniziati.
 
Psèllo[1] nella sua opera, De daemon, cap. “Quomodo daem. occupent”, ci presenta un lungo racconto. “Volete sapere”, chiese il mago Anaphalangis, “se i corpi degli spiriti possono essere feriti da una spada o da altra arma? Sì, possono. Ogni oggetto affilato che li colpisca può farli soffrire; e sebbene i loro corpi non siano fatti di sostanza solida e dura, essi sentono egualmente, perché in esseri dotati di sensibilità, non sono i loro soli nervi che possiedono la facoltà di sentire, ma anche lo spirito che risiede in loro... il corpo di uno spirito può essere sensibile nel suo insieme come in ognuna delle sue parti. In entrambe le narrazioni il ferro della spada teneva lontano le ombre infernali.
 
Gli spettri bevendo il sangue riacquistano forze e vitalità, in quanto secondo gli antichi, nel sangue vi era forza e spirito vitale. Nel sangue  vi era la forza e la vitalità. Per questo motivo nell’antichità era uso sgozzare le vittime, animali o umane sopra le tombe dei propri cari[2].
 
Una volta effettuato il sacrificio di sangue animale, si apre il terreno e compare il passaggio che conduce all’Ade. Ha così inizio il suo viaggio nell'oltretomba, preceduto da un'invocazione di Virgilio agli Dèi inferi, affinché gli concedano di rivelare i misteri dell’Ade.   
 
L’Ade degli antichi, il Limbo, rigorosamente parlando è  una località solo in senso relativo. Non ha estensione definita, né un confine, uno spazio impercettibile dai nostri cinque sensi, che sotto determinate condizioni può essere visualizzato con i sensi fisici. Questo spazio, non visibile, tuttavia esiste, ed è la che gli  di tutti gli esseri che hanno vissuto, compresi gli animali, attendono la disintegrazione[3].
 
Per Lucrezio, i simulacra, imago, sono immagini atomiche, che egli accosta a membrane o a cortecce, poiché, in effetti, essi sono il corrispettivo visivo: tali “membrane” o gusci, si distaccano come corteccia dalla superficie esterna dei corpi per via di un “pulsare” dei corpi stessi e, volteggiando nell’aria, giungono ai nostri organi di senso, riportando fedelmente la forma e la disposizione mentale degli individui da cui giungono. Dai corpi, per Lucrezio, una qualche “tenue immagine,  tenuis imago “ deve staccarsi: e, proprio perché tenue, e quindi leggera, non c’è da stupirsi che essa sia in grado di volteggiare per l’aria. Lucrezio afferma, con assoluta certezza, che il fatto stesso che i simulacra siano costituiti da materia sottile fa sì che essi siano anche veloci, di velocità pari a quella del pensiero: dinamici e penetranti. Virgilio, Ennio, testimoniano questa dottrina, in particolare Ennio scrive negli Annali:
 
“A proposito della dottrina pitagorica … Lucrezio ha tracciato il quadro delle regioni sacre dell’Acheronte, dove non abitano né i nostri corpi, né le nostre anime, ma solo i nostri simulacri, la cui lividezza è uno spettacolo spaventoso.”[4]
 
Nel Libro II di De rerum natura, Lucrezio, per farci meglio capire perché noi non vediamo i simulacra, ci invita ad immaginare la penombra di una casa dalla cui finestra penetra un fascio di luce in cui scorgiamo una miriade di particelle di polvere, particelle che in condizioni normali non scorgevamo,ma erano lì sempre presenti.
 
Per gli antichi filosofi, l’uomo aveva una controparte energetica che poteva apparire separandosi o essudandosi dal corpo materiale. Fino alla morte l’anima spettrale il simulacrum era il veicolo dell’anima divina e dello spirito puro. Appena le fiamme avevano divorato l’involucro o corpo fisico, l’anima spirituale separandosi dal suo simulacrum dell’uomo saliva alla nuova dimora della beatitudine assoluta. L’anima spettrale l’ discendeva nelle regioni dell’Ade, il Limbo.
 
Odisseo nell’Ade ravvisò la forza di Ercole, cioè il suo fantasma la parvenza sola di Ercole, descritta da Omero: “simile a nera notte con arco nudo e freccia, con torvo sguardo. Omero[5] aggiunge che in realtà Ercole si diletta fra di Dei immortali. Nell’Ade si recano le immagini, i simulacra, degli uomini, ma non le loro anime immortali che soggiornano fra gli Dei.
 
Nell’antica Roma, Servio[6], insegnava che l’anima sale al cielo, il corpo si disfa nella terra e l’umbra, creata col corpo fisico, perisce con esso, non è il corpo reale, ma un’immagine (imago) che non si può toccare, come il vento. Agli Inferi o Ade, si recano soltanto le immagini o i simulacra dei morti, queste immagini possono vagare nei sogni dei viventi, oppure possono essere evocate come fanno Enea e  Odisseo.
 
Dicevano i filosofi che, dovendo ogni cosa tornare all’origine sua, l’anima che è parte di Zeus, deve tornare al cielo e il suo corpo alla terra. E come qui l’ombra segue il corpo, risultando quasi dell’una natura e dell’altra (anima e corpo), così doveva esservi alcunché di diverso dall’anima e dal corpo, che andava agli Inferi.[7]
 
Ad esempio il poeta Omero viene raffigurato felice e beato nell’Elisio e contemporaneamente piangente sulle rive dell’Acheronte. L’Omero raffigurato sull’Acheronte non è altro che il suo simulacro, la sua immagine vuota e ingannatrice, un guscio.
  
Proprio all’ingresso dell’Orco, Vestibulum Orci, che prende nome dal dio Forco, Virgilio pone significativamente come prima entità il Lutto, cioè l’ultima cosa che il defunto lascia di sé al mondo dei vivi; e tutta una serie di personificazioni di “emozioni negative” che accompagnano il trapassato lungo i primi passi del suo postmortem, ma dalle quali l’anima si sbarazzerà presto o tardi, se vorrà proseguire il percorso. Al centro della spianata d’ingresso si erge un grande olmo ombroso .
 
Nel mezzo un olmo immenso, ombroso, stende i rami e
le braccia annose: dicono che questa sia la casa
dove stanno di solito i vani Sogni,
appesi, sotto ciascuna foglia.
Eneide VI, 282-249
 
Virgilio in questo passo dell’Eneide descrive un enorme olmo posto a guardia degli inferi, poiché tale albero era considerato dai greci l’albero di Oneiros, figlio della Notte e dio dei sogni: quindi albero del sonno, del sogno e, in ultima analisi, della morte.
 
Nel vestibolo infernale Enea incontra la personificazione dei mali dell'uomo, mostri che sono vere allegorie simboli della discordia sciagure e della guerra e di un’umanità ancora legata al mondo materiale. Enea vede i Centauri, Scilla, Briareo, l’idra di Lerna, la Chimera, le crudeli Arpie (il Lutto, gli Affanni, le Malattie, la Vecchiaia, la Paura, la Fame, la Miseria, la Morte, il Dolore, il Sonno, i Piaceri, la Guerra, le Eumenidi, la Discordia). Forme pensiero create dall’umanità, tanto che la Sibilla invita Enea a ringuainare la spada.
 
Dopo, c’è il fiume Acheronte; qui un gorgo torbido di fango ribolle in una vasta voragine ed erutta tutta la sua melma nel Cocito. Caronte traghetta le ombre dei morti dall’altra parte (attraversando sia l’Acheronte che lo Stige), ma solo quelle che hanno avuto sepoltura. Le altre devono vagare per 100 anni in quella boscaglia acquitrinosa. L’ombra di Palinuro, insepolto ed errante vagando tra le ombre degli insepolti sulla rive dello Stige, appare a Enea.
 
Ecco si fa avanti Palinuro, il nocchiero che poco prima durante la navigazione libica, mentre osservava le stelle era caduto dalla poppa gettato in mezzo alle onde. Quando lo riconobbe, a stento nella nera ombra, così per primo gli parlò: - O Palinuro, quale dio ti ha strappato a noi e ti sommerse nel profondo del mare? Orsù, parla.
 
Palinuro narra la sua fine, ucciso dai barbari Lucani mentre toccava terra dopo tre giorni, gli Dèi dell’oltre tomba, offesi dall’episodio sacrilego, puniscono gli abitanti con una tremenda pestilenza. L’ombra del timoniere supplica Enea di dargli sepoltura, esortandolo a cercare il suo corpo. Sarà la Sibilla a dovergli rivelare che il suo cadavere non verrà mai ritrovato: la sacerdotessa tuttavia mitiga l’amarezza del nocchiero predicendogli che, perseguitati da eventi prodigiosi, i suoi assassini erigeranno un cenotafio da dedicare a lui e da onorare con offerte. Quel luogo avrebbe per sempre portato il nome Palinuro. Con questo brano è divulgato un altro dei misteri post mortem.
 
L’eidolon o simulacrum del morto è legato al corpo fisico, in quanto è la sua fedele immagine, imago. Solo con la distruzione completa potrà trovare pace dopo che il suo corpo o le sue ceneri sono state messe sotto un tumulo, nel seno della madre terra. Solo la terra rende impotente questa immagine facendola piombare in uno stato di torpore, il riposo eterno dei riti funebri. L’annichilamento di una tale anima immagine non può essere istantaneo, può durare anche molti secoli essendo essa formata da elementi materiali.
 
Caronte, si rifiuta di trasportare persone vive, soprattutto se armate, e  vedendo Enea pronuncia le seguenti parole:
 
Questa è la terra del buio, dell’incoscienza, del torpore della notte;
impossibile portare corpi vivi sulla barca dello Stige. (Aen., VI, 390-391)
 
Nella mitologia etrusca, Charun (o Charu) era uno psicopompo del mondo sotterraneo chiamato Ade. È il nome equivalente della figura della mitologia greca Caronte. Anziché traghettare accompagna i defunti nell'ultimo viaggio (a piedi, a cavallo, su carro) verso l’oltretomba, strappandoli al saluto dei propri cari e scortandoli verso la loro meta finale. Regge in mano un martello, il suo simbolo religioso, simile all'ascia bipenne romana. Talvolta è munito anche di spada.
 
Caronte dagli occhi di brace, avrebbe voluto impedire il passaggio ad Enea, ma la Sibilla utilizza il ramo d’oro nell'Ade per placare il cuore irato di Caronte, che cerca di ostacolare il loro cammino (... aperit ramum, qui veste latebat, ... ) e svela il ramo, che nascondeva nella veste, VI 406). Di fronte alla visione del ramo d’oro il Guardiano piega il capo, riconoscendo la qualità spirituale di Enea, in grado cioè di passare da vivo nel regno della disgregazione dei simulacra senza venirne menomato.
 
Cerbero traghetta sia il vate sia l’uomo; il vate è la profetessa, poiché in latino la parola è di genere maschile e femminile, l’uomo in senso eminente è Enea. Enea per compiere la sua impresa ha bisogno dell’assistenza di una Donna. Questo è un altro dei segreti continuamente sussurrati quello della polarità.
 
Enea poi giunse nel Tartaro, dove trova Cerbero il cane a tre teste[8], che divorava chiunque tenti di passare la soglia, in altri termini, il Guardiano di Soglia. Cerbero è detto trifauce con tre bocche, perché ha gli attributi di una divinità lunare, come la triplice Ecate . Cerbero, il divoratore di carni (che consuma i corpi dei morti), in origine era metà cane e metà ippopotamo, l’Ammit degli Egizi. Le tre teste divorano rispettivamente il corpo fisico, quello emozionale delle passioni, e quello mentale dell’egoismo.
 
Figura 1. Cerbero, il Guardiano di Soglia
 
Su consiglio della Sibilla, Cerbero viene ammansito con l’offerta di una focaccia di miele intrisa di erbe soporifere preparata dalla Sibilla. In un altro racconto misterico Psiche, Attraversato il fiume infernale, Psiche deve passare davanti al Guardiano di Soglia, Cerbero, il Cane infernale, e deve tranquillizzarlo con due focacce (sacrificali) d’orzo con vino e miele. Farina d’orzo miele e vino era la bevanda dell’oblio nei Misteri.
 
Ulisse nel suo viaggio gli Inferi, celebra il sacrificio, sull’entrata del regno delle ombre scava una fossa quadrata, intorno alla quale versa una libagione di latte e di miele, poi di vino e quindi di acqua, e dopo aver fatto ciò vi sparge farina d’orzo. A Creta si narrava che Rea avesse partorito Zeus in una sacra grotta di api. A Creta Arianna, la fertilissima madre d’orzo, era la Signora del Labirinto o degli Inferi, a cui si offriva del miele.
 
Il miele era offerto in libagione ai defunti e serviva alla loro imbalsamazione, Persefone, che è divinità sotterranea dei morti, è detta Melitòdes, Mellita, la dea mielata. Sofocle disse delle anime: “Lo sciame dei morti ronza e ascende” Gli antichi erano soliti chiamare api anche le sacerdotesse di Demetra, preposte come dee terrene alle iniziazioni, e la stessa Persefone, Mellita. In greco “melissa”, colei che da il miele, significa “ape”, ed era anche il nome di una confraternita di sacerdotesse di Demetra; della stessa Luna che era considerata presiedere alla generazione; e di un gruppo di ninfe. E ape chiamavano la Luna, quale protettrice della generazione. Il miele era visto come un simbolo della morte, e perciò si sacrificavano alle  divinità sotterranee libagioni di miele.
 
L’acqua dell’Acheronte non può essere risalita contro corrente, per nove volte è detto che le acque paludose dello Stige avvolgono e rinserrano coloro che morirono prematuramente, e sono quelli posti ai margini esteriori dell’inferno vero e proprio. Il nove è un simbolo lunare di gestazione: indica il tempo necessario al compimento di qualcosa, è il numero del ciclo del cerchio 360° = 3+6+0 =9.
 
Enea e la Similla entrano in un luogo di mezzo una specie di anticamera dove dimorano gli ,gli imago, dei morti anzitempo dei bambini, di coloro furono condannati a morte ingiustamente, nonché, in una sezione distinta, detta “Campi del Pianto” (“Lugentes Campi”, Aen., VI, 441), ricoperti da una selva di mirti, coloro che perirono a cagione di pene amorose e tra di essi Enea riconosce “la fenicia Didone dalla ferita ancor aperta che vagava per la grande boscaglia” cioè trova  l’immagine (imago) di Didone suicida con la ferita recente.
 
Ciò che Virgilio chiama imago “immagine”, Lucrezio (De Rerum Natura, I) lo designa simulacrum, “somiglianza”, ma questi sono nomi diversi per una sola cosa un corpo energetico, l’immagine materializzata del morto, che non è l’anima spirituale e né lo spirito, ma semplicemente la sua ombra, l’anima materiale, il principio mediano tra il corpo e l’anima spirituale. Il simulacrum nel cultura greca era designato come  eidôlon “εἴδωλον”.
  
Quasi alla fine dei Campi del Pianto, risiedono coloro che sono morti in battaglia. Questa parte dell’Ade corrisponde ai “Prati degli Asfodeli” dell’oltretomba greco e sono sotto la giurisdizione di Minosse. Questo passo è simile al mito di Er nella Repubblica di Platone, e a quello di Plutarco nella visione di Timarco. Enea incontra l'ombra di Deifobo fra i simulacra dei guerrieri morti combattendo. Il troiano, che appare orribilmente mutilato, racconta di essere stato privato delle armi, mentre dormiva, da Elena che aveva poi condotto presso il suo letto, durante la notte della caduta di Troia, Menelao ed Odisseo perché lo uccidessero e facessero scempio del suo corpo. Enea onora in lui il nato dal nobile sangue di Teucro.
 
Quando il fatale cavallo d'un balzo venne sull'alta
Pergamo, e gravido portò nel ventre guerrieri armati,
lei, simulando una danza, guidava intorno le Frigie
ululanti in tripudio; in mezzo brandiva una grande
fiaccola, e dall'alto della rocca chiamava i Danai.
Allora, sfinito dagli affanni e gravato dal sonno,
mi accolse l'infausto talamo, e disteso mi oppresse
un dolce e profondo riposo simile a placida morte.
                
Elena simulava di festeggiare la fine della guerra troiana allestendo un’orgia bacchica con le donne frigie. Non si comprende bene questa nota dionisiaca che Virgilio mette lì, se non si torna alle origini del mito. Euripide[9] e i Kypria narrano che Zeus e gli Dei si sarebbero serviti della bella Elena per purificare la terra dai peccati dei mortali, provocando una guerra anziché un Diluvio. La terra soffriva troppo sotto il peso degli uomini, diventati troppo numerosi e Zeus decise di provvedere a un suo alleggerimento. La danza celebra la fine del ciclo e l’inizio della purificazione della terra.

[1] Psèllo Michele, scrittore, professore di filosofia e uomo politico bizantino, di cultura vastissima ravvivò in Costantinopoli lo studio di Platone, la cui filosofia cercò di conciliare col cristianesimo.
[2] C. Pascal - L’oltretomba omerico: La morte e l’aldilà nel mondo pagano.
[3] La seconda morte.
[4] Ennio, I, 112 – 126.
[5] Odissea, XI, 601.
[6] Servio, Ad Aen. IV, 654.
[7] Servius Marius Honoratus Ad. Aen. IV, 654. Erudito commentatore del VI secolo di Virgilio.
[8] In Esiodo Cerbero ha 50 teste.
[9] Euripide, Oreste, 1639-42.
LE DUE VIE
 
 
Oltrepassati i Campi del Pianto, i visitatori giunsero alle soglie della porta dell’Ade, qui Enea appende il ramo d’oro. Il colore doro del ramo indica il Sole Spirituale e la Via Solare. Giunto al bivio tra Tartaro e Campi Elisi, a differenza degli altri luoghi dell’Ade che sono avvolti da una fosca caligine, l’Eroe nota che qui il cielo è limpido e terso e una luce purpurea si stende sui prati e i boschetti di lauri e di altre piante odorose e aromatiche che prosperano quel luogo, sulle quali si irradia la luce del Sole e delle stelle.
 
La strada si biforca e come la Y pitagorica a destra la via o cammino che conduce al palazzo di Dite e ai Campi Elisi, mentre a sinistra la via di conduce al Tartaro, luogo di punizione degli empi. Quest’ultimo è circondato dal corso infuocato del fiume Flegetonte. Al di là del fiume di fuoco una grande porta di una torre di ferro e una triplice cinta di mura di ferro che chiude i dannati. Tisifone una delle tre Erinni è la custode di questo luogo tremendo donde si odono provenire stridore di catene e strazianti lamenti.
 
Il ritrovamento nel Sud Italia, a Turi e a Petelia, di parte dell’insegnamento orfico, inciso su lamine d’oro ritrovate in sepolcri di Iniziati Orfici, ha permesso di sollevare un altro lembo del velo sulla metafisica Orfica. Queste lamine[1] lunghe pochi centimetri, ripiegate più volte come pezzettini di carta, sono state trovate appese al collo o a portata della mano del Defunto. Nella lamina di Turi è scritto che l’Anima purificata tornerà ad essere divina (Dio) e non più mortale:
 
… Da uomo sei nato Dio: agnello cadesti[2] nel latte. Rallegrati, rallegrati, prendendo la strada a destra verso le praterie sacre e i boschi di Persefone.                                                  
 
Figura 1. Lamina d’oro di Turi
 
 
Il brano da solo è poco chiaro, poiché sono stati ritrovato solo dei frammenti d’oro non trovati dai violatori di tombe. Fortunatamente il discorso viene ripreso nelle lamine ritrovate a Petelia.
 
E troverai alla sinistra della casa di Ade una fonte, e accanto un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neanche nelle vicinanze. Ne scorgerai un’altra, acqua fredda che zampilla dalla fonte delle Mnemosine; però davanti ad essa stanno i custodi[3]. Parla loro: Sono figlio del Cielo Stellato e della Terra, la mia stirpe è Celeste e ciò lo sapete anche voi. Ho sete e muoio, datemi subito la fredda acqua che scorre dalla fonte delle Mnemosine. Essi ti lasceranno bere alla fonte divina, e in seguito tu vivrai con altri eroi.
 
Virgilio pone anche sulla soglia dell’Ade i sogni sotto i rami di un grande olmo. Prima dei Romani, già i Greci avevano consacrato questa pianta a Morfeo, figlio del Sonno (Hypnos) ) ed ella Notte (Nix). L’olmo è quindi l’albero dei sogni, del sonno, e per estensione, del sonno eterno, cioè la morte. Gli Orfici pongono un cipresso bianco accanto alla fonte dell’oblio che è un sonno, una perdita di coscienza.
 
La descrizione esposta nel VI libro dell’Eneide di Virgilio riflette la concezione di Platone, ma soprattutto quella dell’escatologia orfica.
 
Appena entrato nell’Ade, il Defunto, scorge il Lete o fiume dell’oblio, ove non v’è ricordo della vita. l’Orfico deve prendere non la via di sinistra, segnata da un cipresso bianco, ma la via di destra che lo porta alla fonte delle Mnemosine. La fonte è il simbolo misterico di conoscenza, anche per l’insegnamento giudaico cristiano. La fonte di sinistra alimenta la sete del desiderio di ritornare in un corpo fisico, questa è la fonte dell’oblio, e come dopo aver bevuto come Demetra la bevanda d’orzo, si dimentica la propria origine divina.
 
Enea e la Sibilla incontrano Museo nei Campi Elisi, tra gli spiriti beati più degni, “che svetta con ampie spalle” (VI, 660-678). Virgilio pone Museo al centro dei beati, e lo chiama vate ed eroe, con il che si lascia intendere trattarsi di un grande Iniziato. E sarà lui, su richiesta della Sibilla, a guidarli verso il sentiero che li condurrà ad Anchise. Museo spiega la dottrina orfica della purificazione lethéia, nel fiume dell’Oblio.
 
A seconda delle fonti è figlio di Orfeo oppure discepolo di questo a significare che egli era il continuatore della dottrina di Orfeo. Eumolpo il fondatore dei Misteri di Eleusi[4], il mitico cantore, secondo la Tradizione proveniva dalla Tracia, al pari di Orfeo. Egli raccolse gli oracoli di Museo, discepolo di Orfeo, per poi trasmetterli a suo figlio Keryx.
 
Nei Campi Elisi risiedevano le anime dei pii e dei giusti, tra questi si trovava anche Anchise, la cui ombra svela ad Enea i misteri dell’oltretomba. Celeste unica è la fonte, unica è l’anima da cui tutte le cose derivano e da cui scaturisce anche l’anima individuale, pura e celestiale come la sua origine, ma chiuse nel cieco carcere terreno esse sono agitate da timori e passioni. Con la morte l’anima si libera dal corpo, ma non dalle contaminazioni della materia che solo i castighi dell’oltretomba, inflitti secondo le colpe commesse nell’esistenza terrena. Le anime hanno bisogno di espiare antiche colpe, e sono costrette a purificarsi (da pyr, ‘fuoco’) altre espiano la colpa sospese nell’aria, altre si purifica nel vasto mare, altre nel fuoco. È questo il nucleo essenziale della rigenerazione: liberare l’anima dai detriti della quotidianità, dalle plumbee scorie del tempo. Purificate le anime sono mandate all’Elisio, ma ben poche occupano i lieti campi. Quando poi il lungo tempo trascorso ha dissipato ogni traccia di contaminazione terrena, e ha lasciato il puro etere e il fuoco celeste, allora compiuto il periodo di 1000 anni, le anime sono mandate al lavacro del fiume Lete, il fiume dell’oblio, dove possono deporre ogni ricordo delle commesse colpe. Possono così ricominciare con le nuove incarnazioni il ciclo perenne della vita.
 
L’Anima universale, che è infusa in tutte le cose, ravviva Cielo, Terra, Mare, Luna e Sole e penetra come mente intelligente in tute le parti dell’universo. Da lei deriva ogni specie di esseri viventi, piante, animali e uomini, il cui principio vitale è costituito da una sua frazione che forma la loro anima individuale. Essa è pertanto di natura celeste, come l’Anima universale da cui è venuta, ma unendosi al corpo fisico ne viene contaminata e offuscata dalle membra mortali che ne indeboliscono le nobili aspirazioni e la deviano vero false immagini di bene. I termini usati da Virgilio per indicare l’Anima del Mondo sono “spiritus” e “mens”: “Principio caelum ac terras camposque liquentis/ lucentemque globum Lunae Titaniaque astra/ SPIRITUS intus alit totamque infusa per artus/ MENS agitat molem et magno se corpore miscet” (Aen. VI, 724-727), mentre il termine “animae” si riscontra impiegato solo per le anime individuali.
 
Anchise fa uscire il figlio e Sibilla dall’ultima porta, affinché Enea non abbia ricordo del viaggio, se non vaghe sensazioni confuse. Sono due le porte del Sonno, una forse di corno,che consente veloce uscita a ombre vere, l’altra scintillante di puro avorio,e da lì i Mani mandano al cielo i sogni illusori (Aen., VI, 893-896)
 
Virgilio scrive che la rigenerazione regale conquistata da Enea sortirà benefici regali anche sulla sua dinastia, il futuro ceppo originario della Gens Julia; il cerchio così si chiude: l’immortalità promana dunque sin nel mondo sensibile ove si perpetua per generazioni. L’insegnamento virgiliano, in cui ancora echeggia la dottrina misterica orfica, pitagorica e platonica della rigenerazione, indica nella purificazione del nocciolo dell’essere, che può con proprietà essere definito “seme”, il punto culminante dell’iniziazione eroica.

[1] Le lamine auree sono state trovate oltre che nella Magna Grecia, a Roma, in Creta. Si trovano ora nel Museo di Napoli (cinque), nel Museo Britannico (due) e in quello di Creta (quattro). La lamina, trovata in Roma sulla via Ostiense, risale al II secolo d.C., ora conservata nel Museo Britannico, appartiene a una matrona romana, Cecilia Secondina, e rappresenta il primo caso in cui si trova il nome dell’iniziato. La lamina, dimostra la persistenza dei sodalizi orfici in piena epoca imperiale.
[2] Vedi il mito di Zagreus.
[3] Nel Libro egizio dei Morti è riportata la conversazione fra il Defunto (l’Iniziando) e i Guardiani della Porta:  “Apritemi! Chi sei? Dove vai? Qual è il tuo nome? Io sono uno di voi…”
[4] Se dei Misteri Orfici si conosce pochissimo, in quanto al tempo di Platone e di Aristotile, i due luminari non riconoscevano qual cosa di vero nelle liriche attribuite ad Orfeo e a Museo, viceversa dei Misteri d’Eleusi si conoscono più particolari. Di certo si sa che i Misteri d’Eleusi differivano da quelli di Orfeo perché erano sotto il controllo dello stato, inoltre ad Eleusi si celebrava il culto rettificato di Dionisio.
ENEA NEL LAZIO
 
Marta Sordi in un suo saggio “Virgilio e la storia romana”[1] spiega molto bene in quale contesto mitico e storico doveva muoversi Virgilio nello scrivere i sei libri finali dell’Eneide. Virgilio incluse nell’Eneide cerimonie misteriche e riferimenti a molte saghe mitiche. Virgilio descrive la sovrapposizione e la commistione dei popoli mediorientali su quelli proto-italici. Insieme alla guerra, al sangue ed alla morte i “Troiani”, in Italia, hanno portato la cultura ellenistica, mediterranea. E’ questo il centro del racconto virgiliano.
 
Lasciato l’Antro della Sibilla, raggiunti i compagni, Enea s’imbarca con essi alla volta di Gaeta, dove, appena giunto, fa ancorare le navi. A Gaeta muore la vecchia nutrice di Enea, Caieta, che viene sepolta in quel golfo e gli dà il nome. Celebrate le esequie ed eretto il tumulo funebre, gli Eneadi riprendono la rotta in direzione del Capo Circeo ma qui il dio Nettuno fedele alla promessa fatta a Venere al termine del Quinto Libro, suscita un forte vento che allontana il figlio della Dea dai pericoli in cui sarebbe incorso se fosse sbarcato, poiché la terra era il dominio della maga Circe figlia del Sole.

[1] https://www.rivistazetesis.it/Virgilio1.htm
CIRCE
 
Navigando sottocosta di fronte al luogo dove Circe vive, i Troiani sentono la dea cantare e gli animali (i lupi ed i leoni) ululare e gemere scuotendo le catene (Aen. VII, 15-18). In Virgilio Circe è una figura sinistra, una pericolosa forza della natura, i gemiti terribili delle belve e l’atmosfera inquietante è un’invenzione virgiliana. Circe una dea, è l’incantatrice afroditica ai margini del mondo, secondo la bella definizione del Kerényi. È la figlia del Sole, ma nonostante questo rappresenta pure l’archetipo di una Grande Madre tenebrosa. La dea sta sul punto d’incontro tra la luce e la notte, tra l’olimpico e lo ctonio (…) forse il vero modello di Circe sono le divinità pregreche: come loro, è una Signora degli Animali e delle Metamorfosi”.
 
Rasentano per prime le coste della terra circea,
dove la ricca figlia del Sole fa risuonare
di assiduo canto i boschi inviolati, e nel superbo palazzo
brucia alle stelle notturne cedro odoroso,
percorrendo con stridulo pettine lievi tele.
Di qui si ode il rabbioso lamento dei leoni
che si ribellano ai ceppi e ruggiscono nella fonda notte,
e setolosi porci e orsi nei recinti infuriare,
e grandi forme di lupi lanciare ululati.
Uomini furono, e la crudele dea Circe con erbe
potenti li aveva mutati in ceffi e dorsi di fiere.
 

Figura 1. Potnia Theron - Artemis[1]
 
Omero descrive Circe come una «Dea terribile dalla voce umana». E a differenza del racconto di Virgilio intorno al suo palazzo vagavano animali non più feroci perché ammansiti da magiche bevande. Circe offre agli uomini di Odisseo (Ulisse) una zuppa di formaggio, miele fresco, vino e cereali, alla quale ha aggiunto una misteriosa droga. I Greci bevono la pozione, lei li tocca con la sua bacchetta (rhabdos) e quelli si trasformano in maiali. Circe nell’Odissea è una figura molto complessa, e forse per questo particolarmente affascinante. In entrambi i racconti è una dea terribile (deine theòs), esperta in pozioni magiche, e che usa la voce come agente magico, cioè è padrona del potere del suono: “la tremenda dea dalla parola umana”.
 
Ritorna la dea in quanto Potnia Theron, Signora delle Fiere, proprio come Artemis. Fiere ammansite, dominate, controllate. Questo lo vediamo in tutte le culture, ne abbiamo tracce latenti nella Fata Bambina di Pinocchio. A Cnosso, la Signora delle fiere era raffigurata con una statuetta di donna che stringe due serpenti.
  
Virgilio inverte la funzione del personaggio: mentre in Omero è una dea che alla fine favorisce il viaggio ed il ritorno di Odisseo, in Virgilio è un pericoloso ostacolo di origine soprannaturale. Circe, nottetempo, brucia cedro aromatico in onore dei luminari notturni è interessante questo rito, che apre uno squarcio su un antico culto reso alle stelle.

[1] https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Art%C3%A9mis_Potnia_Theron.jpg
FIUME TEVERE - LATINO
 
Dal mare Enea avvista un grande Bosco Sacro nel cui mezzo si apre la foce del fiume Tevere che il troiano risale. In Sicilia Enea erige sul monte Erice un tempio a Venere Idalia nei pressi di bosco sacro e della tomba di Anchise. Il monte Idalio rimanda poi al monte Ida, a Troia e a Creta, foresta e alla religione tellurica mediterranea. Non è dunque senza importanza che Virgilio parli di un bosco sacro (lucus) e non di un semplice bosco (nemus), come giustamente fece osservare Servio. Le leggende etrusche parlano invece di uno sbarco in Etruria, leggende che verranno riprese anche da Orazio nel Carmen saeculare. Risalito il fiume Tevere, per brevissimo tratto, allestiscono un accampamento fortificato.
 
A sud del fiume regnava Latino, figlio di Fauno e della ninfa Marica re della città di Laurento. Servio scrisse che la madre vera fu Fauna o Fatua e che Virgilio la sostituì con Marica. Il grammatico Servio commenta questo passo dicendo che “Esiodo dice che Latino è figlio di Circe e Ulisse, e Virgilio tocca tale riferimento con le sue parole “emblema dell’avo Sole”, perché Circe è figlia del Sole (Ad Aen. VII, 4). Dionigi di Alicarnasso racconta invece la variante secondo cui Latino discende da Eracle, concepito nel Lazio con una fanciulla iperborea che poi avrebbe sposato Fauno dopo la partenza dell'eroe.
 
Il palazzo di Latino sorgeva sulla sommità di un erto colle, luogo spaventoso a causa delle selve, cioè come un bosco sacro. Al centro della casa di Latino vi è un lauro sacro così come c’era nel centro della casa di Priamo. “C’era un lauro in mezzo alla casa dai profondi penetrali, la cui chioma veniva da sempre custodita con sacro timore” (VII, 60). “Al centro della casa (di Priamo) e sotto la nuda volta del cielo c’era un grande altare e lì accanto un lauro vetusto lo sovrastava cingendo con la sua ombra i Penati” (II, 512). Si narra che Latino consacrasse a Febo il lauro e che dalla pianta derivò anche il nome della capitale dei Latini, Laurento. Alla Sibilla Cumana Virgilio assegna il nome di Deifobe, sacerdotessa di Febo e di una divinità ctonia, Trivia, cioè Ecate, Diana, Artemis.
 
Latino aveva una figlia, Lavinia, promessa in sposa a Turno re dei Rutuli. Tuttavia Latino turbato dai portenti che colpiscono sua figlia Lavinia decide di consultare gli oracula Fauni, i responsi del dio Fauno. Fauno viene descritto da Virgilio come figlio di Pico e nipote di Saturno. La sede dell’oracolo era presso una fonte Albunea, cascata d’acqua che esalava vapori mefitici. Vengono sgozzate e scuoiate 100 pecore per poi dormire sulle loro pelli, per poi ricevere in sonno il vaticinio del Dio Fauno che profetizza a Latino che i Troiani daranno lustro al nome latino col sangue. A suggellare la promessa e in segno di sottomissione, l’ambasciatore offre al re latino i simboli del potere regale di Priamo: lo scettro, la tiara e il mantello di porpora, si tratta di un vero e proprio passaggio di consegne di regalità da Priamo a Latino.
 
Il re Latino fu tuttavia avversato dalla moglie di Latino, Amata, e dal pretendente di Lavinia, Turno re dei Rutuli, che raccolse molte genti del circondario e mosse guerra a quello che riteneva un usurpatore. Amata lo strumento vendicativo di Giunone è la furia Aletto, regina della discordia e delle lotte intestine, che per prima insidia la moglie di Latino. Aletto si insinua nell'animo di Amata e finisce per ridurla in uno stato di furore. Amata era la sorella di Venilia, la ninfa madre di Turno, era dunque una ninfa. Amata, per sottrarre Lavinia alla sorte decisa dal re Latino, nasconde la figlia nei boschi, e rivolgendosi alle donne si appella al diritto materno di contro a quello paterno che vuole avocare al padre la decisione di maritare le figlie. Il mezzo per instaurare nuovamente questo diritto consiste nell’abbandonare le consuetudini familiari e gettarsi, discinte, nelle orge bacchiche. Tra i Greci gli orgia erano tutt’altra cosa: facevano parte della religione dionisiaca. Nelle Baccanti, rappresentate nel 405 a.C., la religione di Dioniso giunge in Grecia dall’Asia, portata dal dio che guida una schiera di Menadi e rende invasate le donne tebane.  Penteo che, stuzzicato e ingannato da Bacco, era andato maliziosamente a spiarle dalla cima di un albero, viene tirato giù e fatto a pezzi. Certo è che queste Menadi furibonde non fanno sesso. Tito Livio scrive che i Baccanali sarebbero giunti a Roma dall’Etruria attraverso la mediazione di un graecus ignobilis. Nel 186 a.C. il console Postumio promosse un’indagine: una schiava, Ispala, messa alle strette, rivelò che si tenevano riunioni notturne promiscue, durante le quali nessun misfatto, nessuna turpitudine erano omessi, e la perfetta iniziazione era non considerare illecito nulla (39, 13). A Roma riuscirono a reprimere il culto perverso con processi, condanne al carcere e pene capitali.
 
Una serpe velenosa che, simulando una collana o una fascia per capelli, penetra fino al cuore della regina Amata. Questa morte ricorda quella di Cleopatra, che si sarebbe fatta mordere da un aspide, per non dover ornare di sé il trionfo di Augusto su Antonio e sull'Egitto.
  
Lavinia tace, ma il suo pianto che scoppia improvviso alle ultime parole della madre, e ancor più il suo rossore, sono più eloquenti di qualsiasi discorso: lei ama veramente Turno, il valoroso campione italico.
 
Aletto si reca ad Ardea, capitale del regno rutulo, e si insinua nell’animo del giovane re Turno, re dei Rutuli e lo invita a muovere guerra ai Troiani ma, assai stranamente, Virgilio gli fa dire: “Vai, scompiglia le schiere dei Tirreni”. I tirreni erano gli Etruschi, solo il crudele Mezenzio, già re di Cere, che Virgilio fa apparire come l’unico etrusco ostile ai Latini e quindi a Enea. Infine, suscita un incidente, facendo sì che Ascanio uccida un cervo un animale sacro della sfera dionisiaca che determina il primo versamento di sangue fra troiani e latini. Ne nasce una zuffa con morti e feriti. Giunone, soddisfatta, congeda Aletto dal suo incarico.
PREPARATIVI DI GUERRA
 
Nel Libro VIII dell'Eneide, ad Enea appare in sonno il Dio del fiume Tevere, il quale lo conforta ricordandogli che ormai è giunto nella terra a lui promessa e non deve temere la guerra predicendogli il compimento della profezia di Eleno. Inoltre lo invita a risalire il fiume fino al borgo di Pallanteo, dove vivono, nel sito della futura Roma, degli arcadi cui è legato da lontani vincoli di sangue e che lo aiuteranno nella lotta contro i suoi nemici.
 
Enea prepara due biremi con cui salire il corso del fiume: si recherà a Pallanteo, la città fondata dal greco Evandro, per stringere con lui un patto d’alleanza. Ed ecco uscire dalla selva una candida scrofa con trenta porcellini bianchi: è questo il segno, come gli aveva predetto Eleno, che là deve stabilire la sua sede. Quando raggiunge Pallanteo - una piccola città murata sul colle Palatino - il re Evandro con il figlio Pallante ed i migliori Arcadi stanno celebrando un solenne sacrificio ad Ercole. Dopo il banchetto seguito alla cerimonia, il re racconta a Enea le origini di quel rito. Ercole, di ritorno dalla Spagna con la mandria dei buoi rossi catturati da Gerione[1], fa sosta nel Lazio, a quel tempo infestato dal mostruoso Caco, che ruba la mandria di Ercole e la nasconde nel suo antro; l’eroe, lo scopre e lo uccide. Virgilio fa giungere Enea in Etruria  molto tempo dopo della migrazione dei buoi rossi di Eretia, condotti da Ercole. Sono narrate due emigrazioni distinte.
 
Gli abitanti del luogo, grati per essere stati liberati dal flagello, gli dedicano un rito, testimoniato ancora ai tempi di Virgilio dall'Ara massima di Ercole Invitto, situata nel Foro boario, da cui partivano i cortei trionfali. Finita la festa, tutti scendono verso la città, e, cammin facendo, Evandro racconta all’ospite la storia dell’antichissimo Lazio. Virgilio mette in bocca al greco Evandro la storia della madre di Dardano, Elettra, come i Greci tramandano, cioè la versione più arcaica, quella antidiluviana. Un tempo quei boschi erano abitati da Fauni e Ninfe e da uomini selvaggi usciti dai tronchi delle querce. Ma quando Saturno, cacciato dall’Olimpo venne qua a rifugiarsi, diede savie leggi a quelle rozze genti. Fu “l’età dell’oro”: gli uomini vivevano in pace, lavorando la terra e ignorando le ingiustizie. Ma poi i tempi mutarono e si passò all’età dell’argento e quindi a quella del ferro. Mutarono pure i dominatori: sulla terra chiamata Saturnia giunsero gli Ausoni, che le cambiarono il nome in Ausonia, più tardi i Sicani; quindi il re Tebro, da cui prese il nome il fiume. Ultimo giunse lui, Evandro, insieme con la madre Carmenta, sacerdotessa di Apollo.
 
Il re, che un tempo in Arcadia, aveva ospitato Anchise, gli promette di essere suo alleato contro i Latini. In ogni caso Evandro e gli antichi Pelasgi, come gli Etruschi, i Sardi, occupavano già nella Tirrenia quando giunsero gli esuli di Eritia.
 
Il re Evandro dice a Enea che può offrirgli in aiuto solo quattrocento cavalieri condotti dal figlio Pallante, ma gli dà un buon consiglio: si rechi nella città etrusca di Cere, i cui abitanti hanno cacciato il tiranno Mezenzio, che ora è ospitato e protetto da Turno; chieda alleanza agli Etruschi, i quali, sperando di avere nelle mani Mezenzio per dargli la morte, accetteranno volentieri la richiesta, giacché una profezia ha loro detto che, per ottenere la vittoria, debbono farsi guidare da un duce straniero.
 
Venere ottiene da Vulcano delle armi divine con le quali suo figlio Enea potrà facilmente sgominare le schiere avversarie. In un primo tempo gliele mostra dall’alto dei cieli e poi gliele consegna materialmente nel momento in cui Enea si reca nel campo etrusco.

Figura 1. Paestum - Guerrieri Latini
 
Enea ritorna alle navi troiane approdate nel lembo di costa poco distante a Cere sulle rive del Tevere, dove le fonti storiche attribuivano tuttavia la fondazione del santuario di Pyrgi ai Pelasgi. Enea divide i compagni in due schiere: parte dei Troiani tornerà al campo presso Ascanio, parte seguirà lui e Pallante a Cere, presso Tarconte, re etrusco.
 
 
 
LO SCUDO DI ENEA
 
Nel Libro Ottavo Venere, madre dell’eroe, scende nell’officina di Vulcano, e lo supplica di fornire a Enea delle armi per la guerra, così come il fabbro divino le concesse a Teti per Achille e ad Eos, l’Aurora, per Memnone. Vulcano si reca sull’isola che da lui prende il nome: Vulcano. Qui, dentro il cratere della montagna di fuoco, si trova la fucina dei Ciclopi, Sterope, Bronte e Piracmone (Arge), intenti a forgiare i fulmini di Zeus, a riparare il carro di Marte e a adornare l’Egida di Pallade. Con pochi ordini, Vulcano li destina ad altro lavoro: “fabbricare le armi a un valoroso”. Così “l’oro e il bronzo ruscellano a fiotti”, l’acciaio “si fa liquido” nella fornace, e infine “saldano sette piastre circolari d’acciaio”, di grandezza decrescente e preparano un grande scudo, in grado “da solo a respingere tutti i dardi dei Latini”. Vulcano, “non ignaro di vaticini e conscio dell’avvenire”, così come aveva fatto per Achille ed Eracle aveva istoriato sui sette strati di scudo alcune simboliche vicende della futura storia di Roma. Vulcano capace di forgiare armi magiche è Efesto, il Kabiro.
 
Come negli scudi di Achille ed Eracle, le immagini scelte danno una visione complessiva del mondo, descrivono un Kósmos (un mondo ordinato) e la scelta dei soggetti rappresentati nello scudo di Enea non è casuale. Nello scudo erano rappresentate “tutta la razza della stirpe futura a partire da Ascanio e le guerre combattute”. Il Sesto settore si riferisce ai riti misterici che garantiscono la pax deorum e l’esaltazione dei pignora imperii, le sette “garanzie” del potere romano: le danze dei Salii e dei Luperci, tra berretti di lana e gli Ancilia (i dodici scudi tra i quali si nascondeva quello di Marte) mentre le matrone portavano sui cocchi arredi e immagini divine.
 
Il bordo esterno era diviso in sette settori, come il numero delle “sette piastre”, e dei Sette Colli di Roma. L’ottavo settore era una fascia circolare un mare rigonfio con delfini nuotanti, che racchiude il settore centrale circolare a sua volta diviso in due parti. E così arriviamo 7+1+2=10 al numero pitagorico Dieci, la sacra Tetractis, che poi è il numero complessivo di settori dello scudo di Achille.
  
Nel frattempo Enea sta concludendo la sua alleanza coll’Arcade Evandro, stanziato proprio lì dove sorgerà Roma, e si dirige verso la terra degli Etruschi, antenati di Mecenate, alla ricerca di alleati. Nel bosco sacro che i Pelasgi consacrarono a Silvano, presso il fiume di Caere, la città più devota fra tutte avviene una sacra “Caerimonia” la consegna delle armi sacre e invincibili. Venere appare al figlio e gli consegna l’elmo “dalla criniera terribile che sembra sprizzare fiamme”, la spada “fatale”, la corazza di bronzo, gli schinieri d’oro ed elettro, la lancia e soprattutto lo scudo, “istoriato di scene inenarrabili”. L’eroe, lieto di tanto onore, ne contempla stupito la straordinaria bellezza.
 
Evandro propone ad Enea di allearsi con gli Etruschi, recandosi nella vicina città di Agilla o Cere l’odierna Cerveteri, e di porsi a capo della loro coalizione là radunata. I cavalieri (troiani e arcadi) si recano alla spiaggia del re etrusco (Tarconte). La spiaggia è quella di Pyrgi, porto militare di Cere. Qui si sarebbero imbarcati sulle navi per scendere la costa fino alla foce del Tevere. Enea si dirige verso un grande bosco sacro vicino al gelido fiume di Cere Tra il bosco e la spiaggia era acquartierata la truppa etrusca comandata da Tarconte.
 
[1] Vincenzo Pisciuneri  "Gli Etruschi - Le Cicogne Dardaniche". "Ercole e la migrazione di popoli".
 
 
TURNO
 
Nel Libro IX Giunone, approfittando dell’assenza di Enea manda Iride da Turno per suggerirgli di attaccare subito il campo troiano. Turno s’avventa contro le navi riparate dietro un argine e, con una fiaccola accesa, vi appicca l’incendio. Qui avvenne un prodigio: le navi costruite con il legno del monte Ida, nel bosco sacro, per volontà di Cibele, vengono trasformate in ninfe e si recano a Cere, da Enea, al quale si rivolgono con il monito rituale che le Vestali rivolgevano al rex sacrorum (vigilasne ... vigila, Aen. X, 228/9). A Pyrgi il luogo dove sbarcò Enea in epoca etrusca e romana erano edificati due santuari, uno a Uni Leucotea, e l’altro a  Śuri il Nero, cioè una forma di Apollo ctonio come quello di Cuma.
 
Notissimo è l’episodio del rifugio a Cere delle Vestali con il Palladio al tempo dell’invasione dei Galli al Campidoglio. A causa dell’invasione gallica che occupò Roma nel 390 a.C. i Romani, in fuga, finirono per chiedere ospitalità alla città etrusca di Caere, che li accolse e che Roma ripagherà poi con la possibilità ai Ceriti di stabilirsi a Roma, sposare donne romane e commerciare sotto la tutela in materia del diritto romano.
 
I Rutuli sono atterriti dal prodigio delle navi trasformate in ninfe, ma Turno, interpretandolo come un lieto auspicio, rassicura i suoi dicendo che Giove ha voluto privare i troiani di ogni possibilità di fuga e condannarli allo sterminio. I Troiani prima che venga mosso l’assalto assecondano l’idea di due giovani, Eurialo e Niso, di passare le linee nemiche per correre ad avvertire Enea. L’inesperienza e il desiderio di combattere tradiscono però i due giovani che, dopo aver ucciso molti Rutuli, vengono sopraffatti. Alla notizia della morte di Eurialo, il calore abbandona le ossa della madre. Per gli antichi le ossa erano la sede dell’anima vegetativa; ciò spiega perché veniva data tanta importanza ad esse nella magia dei riti funebri.
  
I Troiani si battono con valore e rispondono colpo su colpo alle sfuriate nemiche anche quando Turno, rimasto accerchiato dentro l’accampamento avversario, fa strage di guerrieri. Turno fugge si butta nel Tevere, ma Il dio del fiume gli impedisce di annegare adagiandolo incolume sulla sponda.
 
  
 
L’ARRIVO DI ENEA
 
Nel Libro X è narrato che mentre continua l’assalto dei Rutuli al campo troiano, Enea ottenuta l’alleanza degli Etruschi, parte dal porto di Cere al comando di una flotta etrusca accompagnato da una flotta di trenta navi guidate da prodi guerrieri: vengono da Chiusi, da Populonia, dall’isola d’Elba, da Pisa, da Mantova. Ad affrettarne l’arrivo, gli era corsa incontro una schiera di ninfe: quelle stesse in cui Cibele aveva trasformato le navi per sottrarle al fuoco dei Rutuli. Una di esse, Cimodocea, lo informa di tutto e lo esorta ad attaccare battaglia per primo. Enea sbarca alle spalle dell’accampamento e affronta in campo aperto gli avversari.
 
Non appena in vista del campo, Enea sale sulla poppa ed inalbera lo scudo fiammeggiante. Da lontano gli assediati lo vedono e levano un grido esultante di gioia. I Troiani nell’Iliade Omero, aveva associato le grida di battaglia dei Troiani alle grida e richiami delle gru. Virgilio quando narra l’episodio dell’arrivo della nave di Enea con la flotta con i rinforzi[1], paragona il clamore che accompagna il volo delle gru.
 
In questo episodio Virgilio descrive l’arrivo sulla nave di Enea con le splendide armi forgiate da Vulcano come l’arrivo di un dio tuonante.
 
In su la poppa; s’imbracciò lo scudo,
E lo vibrò sì ch’ambedue raggiando
Empiè di luce e di baleni i campi.
Di su le mura la dardania gente
Gioiosa infino al ciel le grida alzaro,
E sopraggiunta la speranza a l’ira
A trar di nuovo e saettar si diero
Con un rumor, qual sotto l’atre nubi
Nel dar segno di nembi e nel fuggirli
Fan le strimonie gru schiamazzo e rombo[2].
 
Enea quale discendente di Dardano conosceva i riti kabirici legati al fuoco celeste. Egli imbraccia uno scudo e lo fa vibrare, si presume che lo colpisca con la spada. Il risultato è luce e baleni, cioè lampi. Poi saette e nembi cioè nuvole scure, apportatrici di pioggia violenta, e il terribile rumore del rombo.
 
Prima la visione della candida scrofa con trenta porcellini bianchi, dopo le 30 navi dell’alleanza. Scrive Virgilio per certificare la discendenza di Cesare da Enea, che Ascanio, suo figlio, regnerà 30 anni e trasporterà la capitale da Lavinio ad Alba, dal latino albus che significa “bianco”; qui la gente troiana governerà per 300 anni (30x10) finché la sacerdotessa Ilia, resa madre da Marte, partorirà i suoi gemelli e Romolo assumerà il potere (Aen. I, 254 sgg.).
 
Il numero 30, è la somma dei cinque numeri pari della Decade è 2+4+6+8+10 = 30, numero che per la filosofia Taoista rappresenta la somma dei numeri della Terra. È anche una Tetractis quadratica: 12+22+32+42 = 1+4+9+16=30. È un numero che porta al compimento alla realizzazione materiale. Il numero 30 rappresenta i giorni del mese sacro, quelli che poi formeranno i 12x30=360 giorni. Successore di Ascanio fu il fratello Silvio e i Re che governarono Alba Longa e le 30 città della confederazione dei “prischi latini” di cui essa era la capitale, sino alla fondazione di Roma, furono in totale 12. Alba Longa appare come la città sacra, il regno dei 12 Re, sulle 30 città della confederazione.
 
Enea dovrà combattere contro popoli fieri e, dopo la vittoria e la fondazione di Lavinio, regnerà sul Lazio fino alla terza estate. Ricordiamo che Sette anni durò l’odissea e fuga da Ilio in fiamme per giungere in Italia, e Tre anni di guerra in Italia, in totale 7+3=10, la mistica Decade pitagorica.  Publio Virgilio Marone, impiegò Dieci anni a redigere Aeneis, il suo poema.
 
Turno non si perde d’animo e a sua volta muove contro i nuovi arrivati. Nei combattimenti sanguinosi che seguono trovano la morte moltissimi combattenti, compreso il giovane Pallante, figlio del re Evandro, che viene ucciso da Turno.

[1] Eneide, X, 262 - 266.
[2] Iliade, III, 1 – 6. Traduzione dal latino di Annibale Caro (XVI secolo).
CAMILLA
 
Camilla è la regina dei Volsci una donna di grande bellezza con un solo amore quello per le armi dopo aver giurato verginità eterna come la dea alla quale il padre l'aveva affidata quando era ancora bambina. Le sue vicende vengono narrate nel libro XI dell'Eneide. Da bambina cresce con il padre nei boschi, tra animali selvaggi e pastori, nutrita di latte di cavalle selvagge. Appena comincia a muovere i primi passi, il padre Metabo, le dona arco e frecce e le insegna ad usarli. Camilla non indossa vestiti, ma solo pelle di tigre. Il padre l’aveva consacrata alla dea Diana Artemis, da questa consacrazione le sarebbe derivato il nome Camilla. La ragazza impara ad usare anche il giavellotto e la fionda, ha un fisico perfetto: così veloce da superare il vento nella sua mascolinità, ma al tempo stesso donna di grande bellezza.
  
Camilla soccorre Turno alla testa della cavalleria dei Volsci e di uno stuolo di fanti. La sua figura incute spavento e la sua baldanza è senza pari. Camilla guida una schiera di cavalieri volsci e un'armata di fanti con armature di bronzo. Al suo seguito ha anche donne guerriere, tra cui la fedele Acca. Non sa filare e non conosce i lavori femminili, ma è abituata a sopportare fin da ragazza i duri scontri ed è velocissima nella corsa, tanto da superare i venti. La ammirano le madri e tutta la gioventù riversata dalle case e dai campi mentre avanza in corteo alla testa della sua schiera: un regale mantello le vela le spalle, un diadema d'oro le orna la chioma, porta con disinvoltura la faretra licia e, come pastorale, un’asta di mirto, sormontata da una punta.
 
L’apparizione virgiliana di Camilla, un’amazzone nell’esercito di Turno opposto ad Enea, è speculare rispetto a Pentesilea (Eneide I, 490-3), la regina delle Amazzoni e figlia di Ares, che ha combattuto accanto ai Troiani nella guerra di Troia. Fu uccisa da Achille, che si innamorò di lei al momento della sua morte.
 
Gli atti di valore di Camilla non si contano: fa strage di nemici, si lancia in ogni mischia, insegue e colpisce a morte ogni avversario che vede, affronta ogni pericolo. Solo non si accorge del giovane etrusco Arunte che la segue nella battaglia per cercare di sorprenderla. Il giovane guerriero si rivolge al Pater Soranus, Apollo ctonio, perché lo protegga nella missione difficile di uccidere con una freccia Camilla.
 
Apollo, protettore del santo Soratte, grande Dio che onoriamo più di chiunque: tu cui sale la vampa del rogo di pini sul quale noi montiamo adorandoti, certi della tua compassione, calcando i nostri passi  attraverso le fiamme sull’alta brace. Padre onnipotente, fa che l’arma mia cancelli quest’obbrobrio! Non chiedo le spoglie né il trofeo della vergine uccisa né alcuna preda: altre saranno le gesta che mi daranno gloria! (Libro XI, 785 - 795)
 
Il passaggio attraverso il fuoco[1], cui l’adoratore allude, è una cerimonia purificatrice nel senso delle parole di Ovidio (Fasti, IV, 554): purget ut ignis, purificazione col fuoco. Così il dio lupo del Soratte appariva dunque sotto un aspetto in cui Virgilio non fu il primo a riconoscere, il dio puro e purificatore, Apollo – ch, proprio in questo suo carattere di annientatore di ogni cosa impura, aveva un particolare aspetto di lupo[2]. Il dio ctonio degli Etruschi era raffigurato con la testa di lupo e in pelle di lupo. Arunte appare qui come un sacerdote appartenente agli hirpi Sorani, i sacerdoti del dio del monte Soratte.
 
Alla morte di Camilla, Arrunte cerca di fuggire, ma sarà ucciso da una freccia di Opi, ninfa del seguito di Diana, per volere della dea stessa. Amilla, in punto di morte, ha in mente solo le sorti della guerra e incarica l’amica Acca di informare Turno della sua morte, affinché il re provveda a sostituirla. La morte della vergine Camilla è il preludio della sconfitta dei Rutuli e degli italici tutti che si erano stanziati nell’Italia meridionale.
 
 
LA MORTE DI TURNO
 
Giunone però, presaga dei fati, implora Giove di differire la morte del suo protetto. Accontentata, opera un prodigio: assume le sembianze di Enea e si fa inseguire da Turno a bordo di una nave che salpa l’ancora e lo riporta ad Ardea, fuori dalla lotta. Intanto Enea, grazie alle armi divine procurategli da sua madre fa strage di nemici, uccidendo a sua volta Mezenzio e suo figlio Lauso, e cercando Turno a gran voce.

Enea e Turno, alla guida dei rispettivi eserciti, fanno strage dei rispettivi nemici. Enea si batte con Turno in duello mortale, venendone sconfitto; nella drammatica scena finale, quando egli è già stato ferito, Enea si accorge che l'avversario indossa ancora il
balteus del giovane amico Pallante, ed è per questo che dopo l’iniziale intenzione di risparmiarlo per le suppliche del nemico (l’atteggiamento di Turno non è dettato dalla paura della morte, ma dal desiderio di evitare il più grande dei dolori al suo vecchio padre) spinto da un'ira vendicativa infligge dunque al Rutulo il colpo di grazia.
 
 
Figura 1. Enea uccide Turno
 
Prima dello scontro mortale con Turno, Enea viene ferito da un dardo vagante alla coscia, e Venere deve intervenire per ridargli vigore con una pianta medicinale. Anchise padre di Enea ferito come Efesto alla coscia e menomato. La coscia è identificata agli organi genitali che simbolizzano, essi stessi, gli organi genitali del verbo. Per esempio quando nel mito greco, Dioniso viene messo nella coscia di Zeus è un simbolo molto importante. La ferita dell’eroe troiano viene curata dal medico del campo Iapige che cerca di estrarre la punta dalla lesione, e così può ritornare a combattere. Un celebre affresco  della Casa di Sirico (Pompei 7 1, 25. 47) (riportato nell’immagine di copertina) mostra al fianco dell’eroe il figlio Ascanio in lacrime per il padre, mentre in alto vola Venere che, assistendo con materna preoccupazione alla scena, porta nella mano erbe mediche. Infine, sullo sfondo, si scorgono due compagni di Enea, Mnèsteo e il fido Acate che l’avevano accompagnato al campo per ricevere soccorso.
 
Precedentemente a Troia Enea come è narrato nel libro V dell’Iliade, era già stato ferito alla coscia in combattimento, conseguenza del duello con Diomede “percosse Enea nell’osso che alla coscia s’innesta ed è nomato ciotola”. In questa occasione è curato sotto la protezione della dea Artemide-Venere che porta con sé l’erba artemisia. Enea come il padre Anchise è dunque colpito due volte alla coscia, ma a differenza del padre guarisce, ciò significa che egli può ancora sessualmente generare. Infatti poi con Lavinia, Enea genera un figlio di nome Silvio.
 
Le leggende antiche tramandavano le ultime vicende di Enea, raccontando che durante un combattimento contro gli Etruschi, che erano stati alleati di Turno, nelle vicinanze del fiume Numico, nel culmine di un’improvvisa tempesta scomparve e Venere lo trasportò nell’Olimpo, dove divenne una divinità, onorata in seguito dai Romani col nome di Giove Indigete. Dopo la morte di Enea, essendo poi sorti contrasti col figliastro Ascanio, Lavinia in cinta si rifugiò prima in un bosco, poi nella capanna del pastore Tirro (il padre di Almone), dove diede alla luce Silvio, capostipite dei re di Roma. Qualche tempo dopo, Ascanio, che era malvisto dal popolo per l'atteggiamento ostile verso la matrigna, si riconciliò con Lavinia cedendole la città di Lavinio, e fondò per sé una nuova città, sui Colli Albani, che fu chiamata Alba Longa. Silvio, figlio di Enea e Lavinia, succedette al fratellastro Ascanio come re di Alba Longa. Da Iulo, figlio di Enea e Creusa, la tradizione romana fa discendere la gens Iulia, che portava il cognomen Caesar, alla quale apparteneva Gaio Giulio Cesare.
 
[1] La descrizione di Virgilio nell’Eneide sottolinea il passaggio a piedi nudi sui carboni ardenti ottenuti con legno di pino. E per questo, in perpetuo, per ordine del Senato Romano, gli Hirpi Sorani avevano diritto ad essere esentati dalla milizia e da ogni altro onere.
[2] Karóly Kerényi Miti e Misteri, cap. Lupo, Capra e Lupercalia.
Torna ai contenuti