Nascita e Morte di un Kosmos - Troia - Sapienza Misterica

SAPIENZA MISTERICA
Vai ai contenuti

Nascita e Morte di un Kosmos - Troia

Stirpe Dardanica
OMERO L’AEDO CIECO
 
I miti, siano essi ebraici greci, egizi, indù, non raccontano favole, secondo l’interpretazione moderna, ma raccontano fatti storici velati da simboli e allegorie, ma in ogni caso è bene sapere che essi nascevano sempre in ambiente misterico[1] e che la chiave d’interpretazione va girata più volte.
 
Omero mise in versi nell’Iliade e nell’Odissea, le vicende degli Eroi di Troia, appartenenti alla Quarta Generazione, quella degli Eroi, attingendo a Tradizioni più antiche. Su remote vicende fu inserita la storia di un conflitto degli Achei, popolo della giovane Grecia e dei Troiani un altro popolo appartenente al vicino medio-oriente. Omero o chi si cela dietro questo nome, ha solo adattato il suo poema, l’Iliade, agli antichi racconti epici, modellandone le vicende a un fatto storico relativo alla sua epoca per compiacere i principi Achei e placare la loro sete di grandezza.
 
Omero è descritto come un Maestro di vita e di verità, cieco, errabondo, vissuto all’incirca nel IX secolo a.C. Emblematico è il nome di Omero, che sembra derivare etimologicamente da “colui che si accompagna a qualcuno”, generalmente il cieco. Il veggente cieco Tiresia, coerentemente alla descrizione presente nell’Antigone di Sofocle (V sec. a.C.), viene guidato da un fanciullo. La tradizione vuole che Omero fosse cieco, ma sta di fatto che tutti gli aedi erano ciechi. Plinio scriveva: “Così una profonda meditazione rende ciechi, poiché la capacità visiva si ritira all’interno” (N. H. XI, 54).
Figura 1. Omero cieco
 
L’Aede era la Musa della musica e dell’armonia, l’Aedo era il suo sacro cantore, era considerato un profeta, tradizionalmente ritratto come cieco in quanto, essendo tale non veniva distratto da niente e da nessuno e affinando le capacità sensibili poteva entrare in contatto direttamente con la divinità (attraverso gli occhi dell'anima) che lo ispirava. La sapienza che possedeva rendeva la capacità di vedere superflua, era un invasato, aveva il dio dentro, le Muse parlavano attraverso di lui. Omero nell’Odissea racconta l’origine della cecità di Demodoco, cantore alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, rimarcando la stretta correlazione tra cecità e doti superiori.
 
La Musa lo amò molto,
ma un bene e un male gli diede:
degli occhi lo fece privo e gli donò il dolce canto. (Odissea VIII, 63-65)
 
Il dono profetico e la cecità furono da sempre interpretati come una sorta di compensazione; gli indovini, ad esempio, diventavano a volte ciechi proprio per la loro conoscenza superiore o per aver raccontato agli uomini ciò che sapevano.
 
La cecità degli aedi e degli indovini è rappresentata in una serie di miti greci come un dono divino o, comunque, di natura sacrale: l’ispirazione e la veggenza. Il poeta in narratore di miti, come l'oracolo ha gli occhi chiusi per le cose terrene ma aperti a una realtà diversa.
 
Un esempio dei più noti è dato dal personaggio di Tiresia, descritto da Omero nell’Iliade come un veggente cieco al quale l’arte profetica era stata concessa a confronto della cecità inflittagli dopo aver visto Atena nuda. Nell’iconografia antica l’immagine di Tiresia veniva rappresentata come un vecchio dal capo velato.
 
Anchise, il padre di Enea fu reso cieco o storpio da Zeus, perché si vantò di essersi unito con la dea Afrodite da cui nacque Enea. Tiresia il cieco indovino, la cui perdita della vista era dovuta al fatto che aveva visto nuda Atena, la dea della Sapienza, cioè aveva contemplato la Sapienza con occhi umani.
 
Si diceva che il volto della Conoscenza era come il volto di Iside, una pura luce capace di stroncare il neofita, il nuovo nato, l’Iniziato. La luce della Conoscenza è troppo abbagliante, per essere ricevuta e impunemente comunicata, senza rischiare di portare alla pazzia e alla malvagità, deve pertanto essere velata, filtrata.  
 
Mosè quando salì sul Monte chiese di vedere il volto del Signore, gli fu risposto: “Tu non puoi vedere il mio volto … ti riparerò con la mia mano mentre passo”. Quando Mosè discese dal Monte del Signore con le Tavole della Legge, “il suo volto era diventato raggiante … egli si mise un velo sulla faccia” [2], cioè egli mise un velo sulla faccia della Rivelazione oscurando alla massa il significato del Pentateuco.
 
   
[1] Le Scuole di Sapienza in passato si identificavano completamente con le Scuole Misteriche.  Nell’antichità accanto all’adorazione popolare degli Dei nelle loro forme, ogni nazione aveva i suoi culti segreti o Misteri, i quali erano anche delle Scuole di Sapienza, dei Collegi, dove venivano insegnate le scienze naturali, l’etica, le leggi, la medicina e l’arte sacra. Si narra che Pitagora trascorse ventidue anni a studiare nei templi egizi. Diogene Laerzio scrisse che Pitagora dopo essere stato Iniziato in Grecia, andò in Egitto, visitò la Caldea e frequentò i Magi. Platone, nel Fedone scrive che coloro che hanno istituito i Misteri o i segreti raduni degli Iniziati, non erano persone mediocri ma possenti Geni che dai primi secoli hanno cercato di farci capire le cose sotto forma di enigmi.
[2] Esodo, XXXIV, 22-33.
LA CADUTA DI TROIA LA FINE DELL’ETÀ DEL BRONZO
 
Euripide[1] e i Kypria narrano che Zeus e gli Dèi si sarebbero serviti della bella Elena per purificare la terra dai peccati dei mortali, provocando una guerra anziché un Diluvio. La terra soffriva troppo sotto il peso degli uomini, diventati troppo numerosi e Zeus decise di provvedere a un suo alleggerimento. Alla stessa causa divina risaliva anche la guerra tebana.
 
Il grande poema epico che cantava i precedenti dell’azione dell’Iliade sono i Kypria, in greco antico: Κύπρια, Kýpria. I Cypria o Canti Ciprii sono un antico poema epico greco piuttosto noto e conosciuto in epoca classica, durante la quale ne circolava un testo definitivo e comunemente accettato, ma che è andato successivamente perduto. Faceva parte del Ciclo Troiano, che raccontava in versi l’intera storia della guerra di Troia. Le vicende trattate dai Cypria si pongono cronologicamente all’inizio del Ciclo Troiano e sono seguite dall’Iliade; la stesura dei due poemi apparentemente avvenne in ordine inverso rispetto alla cronologia letteraria. Karóly Kerényi, scrive in Miti e Misteri, che l’ultima redazione dei Kypria, doveva essere posteriore ad Omero, ma non per questo potevano provenire da un nucleo letterario più antico, un antico poema epico greco andato perduto.
 
Il passaggio da una Generazione a un’altra avveniva per gli antichi in modo traumatico, con una distruzione, alternativamente per fuoco e per acqua, un’Ecpirosi e un Diluvio. La nostra umanità la Quinta Generazione appartiene all’Età del Ferro. Esiodo scrive che gli uomini della Quarta Generazione sono gli Eroi che combatterono le mitiche battaglie intorno a Tebe e a Troia.  
 
La caduta di Troia e di Tebe che segna la fine dell’Età del Bronzo, fu arbitrariamente stabilita nel 1.184 a.C., facendola coincidere con la distruzione di una città di nome Troia situata nell’odierna Turchia. Poiché ogni età si per gli antichi si chiudeva necessariamente con una catastrofe che annienta quasi del tutto il genere umano e non è certamente ipotizzabile che sotto questo punto di vista l’Età del Bronzo termini circa 3.000 anni fa. Le mitiche vicende di Troia, come quelle di Tebe, nascondono storie antichissime su cui le vicende delle storiche Troia e Tebe hanno una sola cosa in comune, il nome dato in epoca recente dai Greci.
 
La distruzione mitica di Troia e di Tebe hanno il significato di fine di una Generazione, la fine di un’epoca, di un sistema ordinato un Kósmos, che cede alle forze disgregatrici del Caos. La mitica Tebe della guerra dei Sette Eroi, e la mitica Troia non sono la Tebe situata in Grecia e la Troia situata in Asia Minore, ma velano un Kósmos antidiluviano.
 
Con il termine cosmo in filosofia s'intende un sistema ordinato o armonico. L'origine della parola è il greco κόσμος (Kósmos) che significa “ordine” ed è il concetto opposto a caos. Nel linguaggio scientifico cosmo è considerato sinonimo di universo, spazio. In russo, la parola Kósmos significa semplicemente “spazio”.
 
Le nascite delle due mitiche città Tebe e Troia citate da Esiodo sono simili, i fondatori  Cadmo e Dardano, all’inizio obbedirono a un oracolo, a un’ingiunzione. L’oracolo a volte consiste in una doppia ingiunzione la prima negativa, la seconda positiva. Apollodoro (Biblioteca, III, 1, 4), narra che Cadmo obbedì all’oracolo di Delfo che gli intimò di interrompere la ricerca della sorella Europa (ingiunzione negativa), e di seguire una vacca il cui manto sembrava raffigurare un cielo stellato, e dove cadeva spossata, ivi doveva erigere una città (ingiunzione positiva). Così fece, fondò Cadmea, cioè pose le basi di una primordiale Tebe.
 
Dardano, figlio di Elettra, e nipote di Atlante, si propose di fondare una città sulla collina detta l’Até, che sorge nella pianura dove in seguito fu edificata Ilio o Troia. Un oracolo di Apollo Frigio avvertì Dardano di calamità se avesse fondato la città in quel luogo (ingiunzione negativa), scelse allora una località sulle pendici del Monte Ida e chiamò quella città Dardania. Apollodoro (III, 12, 3) narra che obbedendo a un oracolo, Ilo il giovane, un discendente di Dardano, seguì la vacca pezzata avuta in premio ai giochi in Frigia, fino a che giunto sul luogo collinare detto l’Até frigia si sdraiò. In quel luogo memore del consiglio dato dall’oracolo di Apollo al padre Dardano (ingiunzione positiva), Ilo fondò una città che chiamò Ilio (Troia), ma non la fortificò, compito assegnato al suo successore, Laomedonte.
 
I miti di Tebe e Troia sono collegati tra loro tramite Elettra, infatti, Diodoro Siculo (I sec. a.C.) ci informa che a Samotracia, dagli amori di Giove con Elettra, figlia di Atlante, erano nati Dardano, Iasio ed Armonia. Quando poi Armonia si sposò con Cadmo, tutti gli Dèi convennero nell’isola per assistere alle nozze. In quell’occasione “Elettra regalò alla figlia i sacri riti della Grande Madre degli Dèi, insieme ai cimbali, ai tamburi ed agli strumenti del relativo rituale ... Poi Cadmo, conforme all’oracolo ricevuto, fondò Cadmea (Tebe) in Beozia”.
 
In aggiunta alla storia di Cadmo  c’è anche la storia dei gemelli Anfione e Zeto. Omero narra nell’Odissea, che Antiope figlia di Asopo, un Dio delle Acque della Beozia, generò con Zeus i Gemelli, Zeto e Anfione che poi avrebbero fondato la città dalle Sette Porte, in altre parole Tebe.
 
In ogni mitologia, all’inizio appaiono sempre Due Gemelli Divini, Dardano e Iasone per Ilio,  Zeto e Anfione per Tebe. La storia della bellissima Antiope ricorda molto quella di Leda amata da Zeus, che partorì anch’essa due gemelli. Uno dei gemelli, Zeto, è descritto come un guerriero, un uomo molto attivo, l’altro gemello, Anfione, appare come un uomo introspettivo, un amante della musica e un divino costruttore, l’opposto del fratello. Apollonio Rodio (I, 738-740) narra che mentre Zeto trasportava le pietre necessarie alla costruzione una per una, sulla schiena, Anfione suonando una lira a sette corde mise in movimento le pietre che formarono le mura di una nuova città Tebe, ai piedi della Cadmea costruita in alto. Fu dunque l’armonia di questa fondazione che portò alla creazione di un piccolo cosmo[2]. Conformemente alla testimonianza di Ferecide (III, fr. 124 Jacoby), i Gemelli Anfione e Zeto furono spesso messi in parallelo con i Dioscuri Castore e Polluce.
 
In modo simile durante il regno di Laomedonte, discendente di llio si presentarono al re due divini muratori che s’impegnarono dietro compenso di due cavalli alati a erigere le invincibili mura di Troia. Secondo una versione del mito fu solo Poseidone a edificare le mura magiche di Troia, mentre Apollo come Buon Pastore custodiva il gregge del re. Secondo un’altra versione le pietre si disponevano da sole l’una sull’altra al suono magico della Lira a sette corde di Apollo. Entrambe le città Tebe e Troia furono dotate in un secondo tempo di mura magiche costruite dagli Dèi o da Semidèi.
 
Il mito tebano narra che Zeto ebbe come moglie Tebe che diede nome alla città, che prima si chiavava Cadmea, mentre Anfione ebbe come moglie Niobe che è vista come una Madre Primordiale di quel genere umano riferito al cosmo tebano.
 
Platone nomina Foroneo e Niobe come i primi uomini, vissuti prima del Diluvio di Deucalione. La mitologia greca ricorda un primo diluvio avvenuto al tempo di Ogige un antichissimo re della Beozia, nipote di Poseidone, il Dio dell’Oceano. Ogige sposò una figlia di Zeus di nome Tebe, come la mitica città. La Beozia, regno del nipote dell’Oceano, era pure chiamata Ogigia, nome dato all’isola cui approdò in seguito Ulisse. Quest’isola è descritta da Omero come l’ombelico del mare, isola dove regna Crono, il Re dell’Età dell’Oro. Il continente inabissatosi in seguito alla guerra di Zeus e dei suoi alleati contro Crono è appunto l’Ogigia. Una figlia di Ogige è Tebe, il piccolo cosmo, un continente, che apparve sulla superficie delle acque prima che il precedente cosmo beotico s’inabissasse.
 
Il nome di Niobe proviene dall’Asia Minore: esso ha la stessa desinenza caratteristica del nome della regina di troia Hekabe e della Gran Madre degli Dei stessa che non si chiamava solo Kibele, ma anche Kibebe[3].
 
Anfione e Niobe ebbero sette figli e sette figlie, quattordici in tutto, che in Omero[4] divennero exotericamente dodici. I sette figli rappresentano le sette sottorazze o diramazioni della Generazione degli Eroi, la Quarta, che dovrà terminare col Diluvio universale. Le sette figlie rappresentano le sette isole, o le divisioni del continente della Quarta Generazione, Atlantide, simboleggiate dalle sette porte di Tebe. Eschilo racconta, per nostra fortuna, cose che dovevano rimanere segrete, come le vicende di Prometeo e di Niobe, tanto che Platone, l’Iniziato, proibì nel suo stato ideale, la storia di Niobe come Eschilo l’aveva portata sulla scena del teatro, le vicende dei figli di Niobe  alludevano a fatti che non dovevano essere divulgati. Per tale motivo, Eschilo fu accusato di profanazione dei Misteri Sabasii e fu condannato a morte[5], egli sfuggì alla morte rifugiandosi all’altare di Dioniso, e giurando (o spergiurando) in giudizio di non essere mai stato Iniziato e quindi di non aver mai tradito ciò che doveva rimanere segreto. Questo fatto ci viene riferito da due testimoni degni di fede, Cicerone[6] e Clemente Alessandrino[7].
 
Inaco che regnava sulla mitica Argo, Arghya-Varsa, la Terra Primordiale, quella della Terza Generazione genera Foroneo e la bellissima Io. Foroneo è noto come il Primo Uomo, l’Adamo fisico che fu il primo a utilizzare il Fuoco dopo che Prometeo l’ebbe rubato agli Dèi e fu lui a costruire le prime città. Ebbe come figlia Niobe, considerata secondo una tradizione come la prima donna amata da Zeus[8]. Niobe appare come una donna primordiale, un prototipo umano, la progenitrice dei primi uomini Argo e Pelasgo, in altre parole degli Arcadi e dei Pelasgi. Il collegamento di Niobe con l’Oceano Atlantico deriva dal fatto che era figlia di Tantalo e di una Pleiade di nome Dione, figlia di Atlante. Antiope madre dei gemelli tebani è anch’essa figlia di una Dea delle Acque.
 
Il mito narra che Niobe entrò in contrasto con Leto (Latona), madre di Apollo e di Artemide (Diana), perché la sua prole di quattordici figli era superiore a quella di Leto di solo due figli. Le due donne una volta erano buone amiche, dopo il litigio scatenarono l’ira di Apollo e di Artemide che uccisero con le frecce rispettivamente i figli maschi e le femmine. Niobe era nipote di Atlante, Apollo e Artemide sterminano con le frecce i suoi Sette figli, una stirpe maledetta dagli Dèi. Il periodo d’ira del Dio Sole durò nove giorni e nove notti per cessare al decimo giorno.
 
Le epiche battaglie di Troia appartengono alla preistoria dell’umanità. Questa guerra secondo Omero, dura nove anni e si conclude all’inizio del decimo anno. I miti greci narrano che la battaglia fra gli Dei si concluse dopo Nove giorni con la caduta dei Titani nelle profondità del Tartaro, nove giorni dura il periodo d’ira di Apollo contro i Niobidi. Per nove giorni e nove notti dura il Diluvio di Deucalione. Questi tempi sono scanditi dal numero Nove che è il numero del cerchio o del giro, il ciclo.
 
Il ciclo è chiuso dal numero Dieci (9+1=10) che rappresenta il ritorno al centro (l’Uno) e l’inizio di un nuovo ciclo o Era. La caduta di Troia è superficialmente ricondotta a eventi voluttuosi, il giudizio sulla bellezza di tre Dee e il successivo rapimento della bella Elena da parte di Paride.
 
Solo al decimo giorno, dice Omero, furono seppelliti i figli di Niobe, e dato che il popolo aveva visto l’accaduto era stato pietrificato. Secondo Karóly Kerényi, un antichissimo gioco di parole faceva derivare popolo da pietra e che pertanto originariamente fossero i Niobidi ad essere pietrificati. Le lacrime di Niobe furono tante che Zeus la trasformò in una doppia fontana, a significare che Niobe si auto sommerse con le proprie lacrime e con i suoi figli pietrificati che ora dormono nelle profondità dell’Oceano Atlantico.
 
Apollo e Artemide sono da un punto di vista misterico le divinità della Luce e della Sapienza, mentre dal punto di vista astronomico sono il Sole e la Luna, la cui influenza porta a dei cambiamenti sull’asse terrestre: diluvi e cataclismi che contrassegnano la fine di un ciclo geologico.
 
Niobe è geologicamente l’Atlantide, mentre Leto è la regione polare, la notte che dà la nascita al figlio Apollo, il Sole. Leto era nata nelle regioni iperboree, i cui abitanti erano tutti sacerdoti di suo figlio, che significa i cui abitanti erano i giusti seguaci della tradizione luminosa o spirituale. Il re degli Iperborei era figlio di Borea, il Vento del Nord, ed era sommo sacerdote d'Apollo.
 
L’ira dei Figli della Luce ha anche un significato storico: la guerra dei figli della luce contro i tenebrosi figli delle passioni a seguito di una degradazione morale degli Atlantiani, gli uomini della Quarta Generazione. Il Libro della Genesi nel sesto capitolo descrive come causa dello sterminio tramite un Diluvio dell’umanità, formata da Giganti, le iniquità e i peccati commessi da questi ultimi. L’eco di antiche guerre epiche ripreso in occidente da Omero nell’Iliade, e nel Mahâbhârata e nel Ramayana in oriente, ha la sua origine in quel lontanissimo passato.  
 
Il geologo Robert M. Schoch nel libro La voce delle pietre, traccia uno spaccato su quell’immane catastrofe mondiale che doveva essere stato diecimila anni fa il Diluvio. L’autore spiega come l’Iliade e l’Odissea, nel raccontarci gli ultimi giorni di Troia, ci descrivono in realtà uno scontro fra divinità, fra poteri non umani. Dopo la Teogonia di Esiodo, due sono i filoni dei racconti mitici nell’antica Grecia che custodiscono o più precisamente celano la memoria storica, l’Iliade di Omero che riguarda la Quarta Generazione, e la Trilogia di Prometeo di Eschilo che riguarda la Quinta Generazione. In Questo libro si tratta i racconti mitici legati al ciclo dell’Iliade e della caduta di Troia, che segna la fine dell’Era del Bronzo.
 
Oggigiorno, si ammette che i poemi omerici trovino origine nelle antiche leggende e nei canti che facevano parte di un’antica tradizione orale popolare da cui Omero o chi per lui ha attinto. Omero riscrive per i greci le vicende antiche che venivano insegnate nei Misteri, e poiché non poteva divulgare i tempi e i luoghi  scrive due poemi facendo riferimento a luoghi e personaggi della sua epoca. L’Iliade di Omero non è certo un racconto storico come normalmente inteso: è un racconto mitico e come tale deve essere decifrato. Altri racconti epici-mitici sono il Gilgamesh, il Ramayana e il Mahâbhârata, molto più antichi di quanto ingenerosamente assegnano gli studiosi, che conoscono solo l’ultima stesura exoterica.
 
Due più grandi poemi epici dell’umanità il Ramayana e il Mahâbhârata, precedono di secoli l’epica dell’Iliade e dell’Odissea. Jacolliot, grande conoscitore dell’India, precisa: “L’Iliade di Omero non è altro che un’eco, un pallido ricordo del Ramayana, un poema indiano nel quale Rama va, alla testa dei suoi alleati, a riprendersi la moglie Sita che era stata rapita dal re di Ceylon”. Il Ramayana narra l’assedio e la resa dell’isola di Lanka a Rama. Tutto lascia credere che questo poema sia l’originale dell’Iliade, con la differenza che nel Ramayana gli alleati di Rama sono scimmie guidate da Hanuman. Il Ramayana, viene recitato in autunno in molte zone dell’India durante una celebrazione che dura dieci giorni[9].
 
Non è semplicemente possibile che il Ramayana stesso, il famoso poema epico, sia l’originale dell’Iliade di Omero, come è stato suggerito alcuni anni fa? Il bel Paride che rapisce Elena, assomiglia molto a Râvana, re dei giganti, che fugge con Sithâ, moglie di Rama. La guerra di Troia è la controparte della guerra del Ramayana; inoltre Erodoto ci assicura che gli Eroi e gli Dèi troiani risalgono, in Grecia, solo al tempo dell’Iliade.
 
La guerra si conclude con una distruzione, un Diluvio che appare nei libri indù nel Mahâbhârata, nei Pûrana. Il Gilgamesh, di epoca sumerico-babilonese, redatto intorno al 2.000 a.C. contiene fra l’altro la descrizione del Diluvio universale, la fine di un’epoca. Questi racconti prima di trovare la forma scritta giunta fino a noi, erano tramandati oralmente sotto forma di miti. Nel Mahâbhârata riconosciamo Nembrod sumerico sotto il nome indù del re Daytha. L’origine del mito greco dei Titani che scalano l’Olimpo, e di quell’altro dei costruttori della Torre di Babele che cercano di raggiungere il cielo si rivela nell’empio Daytha che scaglia imprecazioni contro il tuono celeste e minaccia di conquistare lo stesso cielo con i suoi possenti guerrieri, attraendo così sull’umanità l’ira di Brahma. “II Signore allora decise”, dice il testo, “di castigare le sue creature con una terribile punizione che sarebbe stata di ammonimento ai sopravvissuti e ai loro discendenti”. La più completa descrizione del Diluvio si trova nel Mahâbhârata di Vedavyasa.[10].

[1] Euripide, Oreste, 1639-42.
[2] Karóly Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia, vol.2, p.48, Garzanti.
[3] K. Kerényi, Miti e Misteri, p.269, Boringhieri.
[4] Omero, Iliade, XXIII, 175.
[5] Nell’antichità, non si conosceva delitto più grave di quello del tradimento o della rivelazione dei contenuti dei Misteri a persone non Iniziate di pari grado. Il traditore veniva punito con la pena di morte e con la confisca dei beni. Il silenzio iniziatico era osservato nei Misteri d’Eleusi, in quelli di Samotracia, nei Misteri Egizi, fra i Caldei e i Parsi.
[6] Cicerone, Tusculane Quoestiones, I, ii, 20.
[7]Clemente Alessandrino, Stromati, I.
[8] Apollodoro, Bibl. II, 1.
[9] Compare il numero dieci che caratterizza anche il ciclo dell’Iliade e poi quello dell’odissea.
[10] H.P. Blavatsky, Iside Svelata II,  Antichità del Mahâbhârata.
ELENA FIGLIA DI NEMESI

I racconti mitici intorno alle vicende della bella Elena che causò la rovina di Troia, alludevano esplicitamente a una distruzione dell’umanità tramite un Diluvio. Scrive Karóly Kerényi in “Miti e Misteri” che la Nemesis sorge come una rappresaglia automatica che gli Dèi o gli uomini mettono soltanto in movimento, del tutto involontariamente. Elena, nacque dalla “possente necessità” di un dio (Zeus) di “sedurre” la Necessità (Nemesi), affinché generasse “la bellezza”. Il frutto nato da questa impresa fu causa di uno dei conflitti più grandi che si verificarono nella storia dell’antichità, la guerra di Troia. Guerra che rimase unica sia per i preparativi, che per l’estensione di tempo, nonché per la grandezza degli Eroi che vi parteciparono, e per gli Dèi che furono coinvolti in una sorta di guerra intestina.
 
All’inizio o quasi all’inizio di quel grande poema epico che cantava i precedenti dell’azione dell’Iliade, i Kypria, aveva luogo una scena mitica senza pari in tutta la letteratura greca. Essa si riferiva alla fuga della grande dea Nemesi. Zeus la insegue con brama amorosa, nel mare e nell’Okeanos, dove essa assume la forma di un pesce, e sulla terra … sotto forma di animali terrestri … Zeus raggiunse Nemesi nell’aria. Il dio in forma di cigno, la dea in forma di oca selvatica … il cui frutto doveva essere per gli uomini, la più bella donna e il più grave destino: Helena.[1]
 
Le nozze uccellesche sono seguite dalla deposizione delle uova, dalle quali nascono i gemelli divini: i Dioscuri Kastor e Polydeudekes, e le donne fatali, Helena e Klytaimnestra.[2]
 
La nascita di Elena da un Uovo e le primordiali nozze di uccelli della palude si riscontrano presso i popoli finno-ugri della Russia. Il poema epico estone Kalevipoeg composto dal materiale di antichi canti popolari contiene un racconto della nascita di Linda, madre dell’Eroe, da un uovo casualmente ritrovato in un luogo paludoso, come anche descritto nel mito greco di Leda. In India, Hamsa, il Cigno è il veicolo di Brahma, Lo Spirito, l’Atman, cova l’Uovo Cosmico galleggiante sulle Acque primordiali.
 
Del mito esistono due principali versioni:
 
  1. Elena Figlia di Nemesi: è la versione pervenutaci dai Kypria, antico poema epico greco andato perduto. Narrava storie cronologicamente collocate all'inizio del Ciclo Troiano e seguite dall’Iliade, rispetto alla quale è posteriore. Zeus si sarebbe invaghito di Nemesi (figlia della dea primordiale Nyx – Notte), che per sfuggirgli si sarebbe trasformata in pesce, animali terrestri ed infine in oca, da qui la trasformazione di Zeus in cigno. Dopo l’unione con Zeus Nemesi avrebbe deposto un uovo (del colore del giacinto azzurro secondo Saffo), che poi con modalità diverse sarebbe pervenuto in custodia a Leda, che intanto aveva già partorito i Dioscuri. Secondo questa versione Elena ed i Dioscuri sarebbero stati fratellastri. Il vaso dovrebbe riferirsi a questa versione in quanto l’uovo, pervenuto a Leda, doveva essere sacrificato.
  2. Elena Figlia di Leda: secondo la tradizione da Omero in poi, Elena è figlia di Zeus che si sarebbe congiunto a Leda trasformandosi in cigno. Leda avrebbe deposto un Uovo da cui sarebbe nata Elena che sarebbe stata allevata poi nella casa di Tindaro, re di Sparta. Secondo la tradizione spartana dagli amori di Leda sarebbe nata la coppia gemellare Castore e Polluce e la nascita di Elena sarebbe avvenuta in un secondo momento. Secondo altre versioni però le uova deposte da Leda sarebbero state due, e da ciascuna di esse sarebbe nata una coppia di gemelli: Castore-Polluce ed Elena-Clitemnestra. La madre di Elena è Leda in questo mito, e messa in relazione con i Gemelli nati dall’Uovo[3], in altre parole sia con i Dioscuri, e sia con i primi uomini fisici, la Terza Generazione, la violenta Generazione dei Frassini.
   
 
Figura 1. Nascita di Elena dall’Uovo  - Museo Paestum[4]
 
Elena secondo la versione pervenutaci dai Kypria era figlia di Zeus e di Nemesi. Il Kypria narrava storie cronologicamente collocate all’inizio del Ciclo Troiano e seguite dall’Iliade, rispetto alla quale è posteriore. Zeus si sarebbe invaghito della figlia della dea primordiale Nyx – Notte, cioè di Nemesi, la Necessità. La nascita di un cosmos è opera della coppia Zeus Themis, la sua distruzione per opera di Zeus Nemesi.
 
La Nemesi del poeta dei Kypria è la vendetta cosmica: essa lo è anche contro se stessa, quando il suo pudore verginale, il pudore di un giovane essere della natura, viene minacciato dalla brama divina. Il suo significato originario sembra essere quello di una forza che colpisce chi ha causato dei torti e, nelle epoche posteriori, assume perciò anche il significato di vendetta o comunque di una giustizia violenta ed inesorabile. La figura della dea Nemesi, come la concepivano i Greci del periodo classico, sarebbe perfettamente incomprensibile, se noi volessimo avvicinarla partendo per esempio dal concetto della rappresaglia e non dalla realtà femminile primordiale, della femminilità primordiale di fronte all’irresistibile volontà maschile. Il mito della nascita di Elena di per sé indica che non è propriamente una donna ma una personificazione collegata a precisi riferimenti, gli animali, la nascita, l'uovo, esplicitamente simbolici e che sottendono più significati.
 
Come figlia della Notte e dell’Oceano, Nemesi va dunque associata all’oscurità, e pertanto riveste l’aspetto di forza o potenza nascosta. Il Cigno in cui si è trasformato Zeus è invece associato alla Luce. L’unione di questi due elementi suggerisce l’idea di una forza nascosta e vigile che venga portata alla luce e vivificata. Chi compie quest’opera è il Dio Ermes che colloca l’uovo nelle cosce di Leda. Dioniso è detto essere nato da una coscia di Zeus.
 
Le due versioni del mito rappresentano il medesimo matrimonio di Zeus cambiando il nome della sposa. L’uovo simboleggia l’origine della vita e la vera natura di Elena è quella di una figura divina dell’albero, di origine mediterranea, legata al rinnovamento della vegetazione, alla sfera delle iniziazioni femminili ed al rituale del matrimonio spartano. D’altra parte il termine Leda non è greco e significa semplicemente “donna”, così come non è greca l’etimologia di Elena.
 
Platone in particolare parla diffusamente in uno dei suoi dialoghi dei nomi, distinguendo addirittura i nomi usati dagli Dei da quelli usati dagli uomini, ribadendo che i nomi non nascono per convenzione ma per natura, tanto che imporre i nomi è un’opera che spetta ai legislatori. Nemesi partorisce e rinasce in sua figlia, Elena. Nell’antica Grecia la pratica dell’Isopsefia accomuna parole di significato diverso, mentre il numero che le rappresenta, può essere definito “psefia”. Isopsefia è un particolare sistema di calcolo, derivato direttamente dalla psefia (conteggio), che consisteva nell’attribuire una quantità numerica a ciascuna delle lettere dell’alfabeto greco. Il valore numerico o isopsefico del nome di Elena, Ελένη, Ε(5), λ(30), έ(5), ν(50), η(8), sommando i numeri: 5+30+5+50+8=98. Novantotto 2x49=98 è il doppio del numero 49, il numero della Fenice. La Fenice, secondo la mitologia, muore e risorge dalle sue ceneri sette volte sette, 7x7=49. Segue l’Anno del Giudizio è il cinquantesimo 49+1=50, che corrisponde al Giubileo della Tradizione Cristiana. Alle ore cosmiche del Giorno seguono le ore della Notte  ecco perché il conteggio totale va raddoppiato. Il nome di Elena è legato alla Fenice alla fine di un ciclo. Come figlia di Nemesi Elena è lo strumento della Legge Inesorabile che distrugge ogni cosa alla fine della Dodicesima Ora del Giorno.
 
Ma quando essa appare (ai Troiani) accompagnata dalle sue due fanciulle … avvolta in un luminoso velo bianco, gli anziani esclamano tra di loro: non è una nemesi … essa è, infatti come una delle dee immortali[5].
 
Elena nella narrazione di Omero, avvolta nel luminoso velo bianco, appare per quello che è, una Dea. Nell’Iliade Elena è solo la figlia di Zeus, di sua madre non viene detto nulla. Osserva K. Kerényi[6], prima di Omero quella figura (Nemesi) non era solo una grande Dea, ma anche un simbolo: un’eloquente immagine della femminilità cosmica che partoriva sua figlia e il suo alter-ego, il bel male per gli uomini. In Omero le norme cosmiche trasgredite si vendicavano. Omero nell’Iliade svincola apparentemente Elena dalla sua madre Nemesi, ma tramite il giudizio di Paride la collega con Afrodite, di cui Nemesi è la Signora e Afrodite la sua servente.

[1] K. Kerényi, Miti e Misteri, la nascita di Helena, p. 35.
[2] K. Kerényi, Miti e Misteri p. 47.
[3] Platone, Simposio - Aristofane informa i presenti dell’antica forma dell’uomo: sferica ed ermafrodita. La Terza Generazione era composta dapprima di androgini la cui forma era arrotondata, come una sfera, poi in seguito i gemelli si separarono nel guscio prenatale, l’uovo, per poi uscirne come maschi e femmine secondo l’allegoria di Zeus e Leda e dei Gemelli nati dall’uovo.
[4] Wikipedia. Museo di Paestum. In questo vaso di Python Leda e Tindareo assistono alla schiusa dell'uovo, posto su un altare, dal cui polo superiore fuoriesce Elena. Sono presenti Hermes, Afrodite, Phoibe, sorella di Elena e Tybron, una figura silenica. Il mito ha legami con l’orfismo.
[5] Omero Iliade III, 156-158. In Miti e Misteri - La nascita di Helena di Karóly Kerényi.
[6] Karóly Kerényi, Miti e Misteri - La nascita di Helena.  
DARDANO IL PROGENITORE DEI TROIANI
   
Vi sono varie tradizioni sulle origini di Dardano (Δάρδανος, Dárdanos) il progenitore del popolo troiano. Il valore numerico o isopsefico del nome di Dardano Δ(4) ά(1) ρ(100) δ(4) α(1) ν(50) ο(70) ς(60) è 4+1+100+4+1+50+70+60 = 290 = 10x29, cioè dieci volte ventinove. L’importanza del numero 29 è legata ai numeri primi, infatti è il decimo numero primo, chiude la decade dei numeri incorruttibili, non divisibili,  che emanano solo dall’UNO. I Pitagorici, ci informa Giamblico, chiamano il 10 unità di seconda serie, il ventinove è nuovamente un dieci, ma particolare, incorruttibile. Da un lato il 10 rappresenta l’Unità, dall’altro con il cerchio la molteplicità, la materia che si differenzia, la perfezione e il compimento.  Il Pitagorico Filolao del numero Dieci diceva: “Grande, infatti, è la potenza del numero, e tutto opera e compie, principio e guida della vita divina e celeste e di quella umana”. Nomen Omen, nel nome di Dardano il suo destino, la sua missione, l’inizio di un ciclo di creazione di un cosmos  e di un gruppo razziale.
 
Varrone e Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane, I, 61), narrano che Zeus e la Pleiade Elettra ebbero in Arcadia due gemelli, Dardano e Iasione o Iasio. Elettra madre di Dardano era figlia di Atlante anch’essa nata in Arcadia. Dardano sposò Crise, la figlia di Pallade (o Pallante), re di Arcadia e antenato di Evandro, che gli generò due figli, Ideo e Dimante. Pallade o Pallante era considerato come un re primordiale educatore di Pallade Atena. La moglie di Dardano, Crise, che significa l’aurea, portò in dote il Palladio donatole da Atena e le sacre immagini delle Grandi Divinità (i Kabiri) di cui era sacerdotessa.
 
Secondo la tradizione ateniese per bocca di Dionigi d’Alicarnasso i Due Fratelli in seguito a un grande diluvio, abbandonarono l’Arcadia ed emigrarono a Samotracia dove Dardano avrebbero introdotto la, pur serbando segreti i loro veri nomi. Fondò anche un collegio di sacerdoti perché celebrassero i riti necessari identici a quelli celebrati in Creta dai Cureti[1]. Il riferimento ai Cureti dell’isola di Creta ha il fine di stabilire l’identità dei riti misterici, infatti i Cureti sono i Salii dei Latini. I Cureti erano divinità minori della mitologia greca, costituivano il seguito di Rea, la Madre, le loro confraternite erano uguali a quelle dei Coribanti. Con questo nome vengono designati anche i Sacerdoti Iniziati dell’antica Creta, al servizio di Cibele. Questa classe di Dèi, talvolta è identificata con gli Dèi del Diluvio, ed è simile ai Dioscuri, e ai Kabiri.
 
Dopo la morte del fratello Iasione, Dardano si diresse nel luogo dove poi sarebbe sorta Troia, e fu benevolmente accolto dal re Teucro.
 
Iasio o Iasione, fratello di Dardano, è presente nell’Odissea di Omero dove è ricordato per esser stato fulminato da Giove a causa dei suoi amori con la dea Demetra, e salì al cielo. Gli Orfici enumerano cinque Idei dattili simili ai Kabiri, fra cui figura un certo Iasio esperto in arti mediche. Gli Orfici narrano anche di un giovane cacciatore cretese di nome Iasio al quale Demetra si era data nei solchi di un campo tre volte arato a cui aveva partorito Pluto, la ricchezza, dopo di che la terra aveva portato un raccolto abbondante. Per questa unione, si diceva exotericamente che Zeus avesse fulminato Iasio. Questo cacciatore amante di Demetra è anche Dioniso figlio di Semele. Il mito orfico dell’accoppiamento fra Demetra e Iasio al fine di rendere fertile la terra è l’immagine del connubio fra il Sole-Iasione e la Terra-Demetra, il cui figlio partorito era quella spiga di grano che si mostrava nei Misteri Eleusini dopo il congiungimento fra il gran sacerdote e la gran sacerdotessa.
 
Iasione è l'Essere Umano che ara tre volte il campo per ottenere un grande raccolto. Iasione è colui che mette in essere le azioni per costruire; Demetra è la forza della costruzione che quelle azioni producono e alimentano. Il campo arato non è la terra su cui gli uomini vivono, il campo che deve essere arato per tre volte è il triplice corpo della personalità fisico emotivo e mentale dell’Iniziato.
 
La figura di Iasio o Iasione è in realtà legata ai Misteri Kabirici di cui egli è il Grande Ierofante. In questi racconti Iasone figura come colui che portò i sacri riti dei Kabiri in Samotracia, isola che nella tradizione greca è sempre stata considerata Kabirica. Il nome di Iasio viene pure menzionato fra i Figli di Foroneo, il più antico Re di Argo, ed ebbe come fratelli Pelasgo e Agenore. Iasione, Pelasgo, appaiono come uomini primordiali pre-Achei, abitanti di luoghi arcaici, mitici, che oggi non esistono più.
 
All’inizio di un’Età vi sono sempre Due Gemelli[2] uno divino e spirituale, l’altro mortale e materiale. Il divino o spirituale apparentemente muore[3], o scompare dalle vicende materiali del mondo, cioè non partecipa alla creazione materiale o al governo del regno, che spetta al gemello terrestre che genera una progenie. Secondo la tradizione, riportata in varie fonti greche – quali Dionigi d’Alicarnasso (I, 68) e Diodoro Siculo (5, 48) – e latine (Macrobio, Saturnalia, 3, 4, 7-9), Dardano dopo aver ucciso il fratello Iasione ed essersi rifugiato in Frigia (dove sposò la figlia del re Teucro), avrebbe eretto nell’isola di Samotracia un tempio in onore dei Grandi Dèi “i cui particolari appellativi egli tenne segreti e non rivelò agli altri; inoltre istituì in loro onore i misteri che si celebrano ancora oggi da parte dei Samotraci” (Dion. Hal. I, 68), mentre avrebbe portato con sé il Palladio e le imagines deorum a Dardania, da dove passarono a Troia e poi a Roma per il tramite del pio Enea.
 
Secondo la tradizione latina riportata da Virgilio e da Servio, Dardano e Iasione sarebbero partiti dall’umbilicus Italiae, il centro sacro dell’Italia, presso il lago di Cotilia, dall’Etruria, nell’Italia centrale, per giungere il primo in Troade, il secondo in Samotracia. Secondo questa tradizione, il padre di Iasione era il re dei Tirreni, Corito; e solo il suo gemello, Dardano, era figlio di Zeus e di Elettra. Corito fondò la città di Cortona, da cui Iasione e Dardano emigrarono, dopo aver diviso tra loro le sacre immagini.
 
Nell’Iliade, il capostipite dei Troiani è Dardano, come lo stesso Omero fa dire ad Enea, quando egli ricorda ad Achille i propri antenati:
 
Io mi vanto d’esser nato figlio del magnanimo Anchise, e mia madre è Afrodite [...]. Se però vuoi conoscer bene tutta la mia stirpe, molti la sanno fra gli uomini. Dardano primo fu generato da Zeus adunatore di nubi, e fondò Dardania, perché la sacra Ilio, città di mortali, non si ergeva ancora sulla pianura, ma la popolazione abitava alle falde dell'Ida ricco d'acque. E Dardano generò un figlio, il re Erittonio [...]. Assaraco generò Capi, e questi Anchise, e Anchise me; e Priamo generò Ettore glorioso. Di questa stirpe, di questo sangue mi vanto. (Iliade XX, 208-241).
 
La Samotracia fu colonizzata dai misteriosi Pelasgi, poi dai Fenici. Pausania afferma che fu Pelasgo il primo uomo vivente, progenitore dei Pelasgi emerse dal suolo dell’Arcadia[4], subito seguito da altri uomini ai quali Pelasgo insegnò come costruire capanne e nutrirsi di ghiande e cucire tuniche di pelle. Il popolo Pelasgo era considerato un eterno vagabondo, un popolo errante che proveniva dall’Arcadia. I Pelasgi sono i discendenti di Iasio, il fratello di Dardano, e venivano anche chiamati Pelargi o cicogne. I discendenti di Dardano, i Troiani venivano da Omero[5] associati a delle gru, ad uccelli acquatici.
 
Il viaggio di Dardano e della sua famiglia suoi appare come una migrazione di un popolo che probabilmente era noto col nome di Cicogne o Gru. In Grecia, il cigno traina il carro alato di Apollo: ogni autunno i cigni trasportano Apollo al paese degli Iperborei. Quando Apollo nacque i cigni volarono intorno all’isola di Delo per sette volte cantando.
 
Dardano introdusse il culto delle Grandi Divinità a Samotracia mantenendo segreti i loro nomi, fondò un collegio di sacerdoti o un sodalizio affinché si celebrassero i riti necessari, riti che erano identici a quelli dei Kureti e dei Kabiri, non per nulla la Samotracia è considerata un luogo kabirico.
 
Il nome di Iasione è il nome del Sole Jona dei Troiani, e di Jon degli Scandinavi e ogni Iniziato ne assumeva il nome, Jasione è uno di questi, paragonabile ad un Re Divino, quale fondatore di nuove civiltà ed insediamenti umani. Il nome di Iasio viene pure menzionato fra i Figli di Foroneo, il più antico Re di Argo, ed ebbe come fratelli Pelasgo e Agenore; in altri testi Pelasgo appare come figlio di Niobe. Jasione, Pelasgo, appaiono come uomini primordiali, abitanti di luoghi arcaici, mitici, che oggi non esistono più, le terre sommerse dell’Atlantide, quelle del mito di Niobe.
 
Secondo la tradizione latina riportata da Virgilio e da Servio, Dardano e Iasione sarebbero partiti anziché dall’Arcadia, dall’Etruria, per giungere il primo in Troade, il secondo in Samotracia. In questi racconti Iasone figura come colui che portò i sacri riti dei Kabiri in Samotracia, isola che nella tradizione greca è sempre stata considerata Kabirica.
 
I Latini narrano che Evandro figlio del Dio Ermes (La personificazione della Conoscenza segreta o iniziatica), e della ninfa profetessa Carmente lasciò il luogo dove era nato, l’Arcadia (la terra primordiale), e con un gruppo di Pelasgi giunse in Italia stabilendosi sul colle Palatino, fondando la città di Pallanteo.
 
Insegnò come un Kabiro ai nativi la scrittura e la musica e introdusse il culto di Pan, di Demetra (la Dea dei Misteri) e di Poseidone (il Dio dell’Oceano, la patria degli Atlantidei). Fu Evandro ad accogliere i cugini Troiani guidati da Enea. In ogni caso Evandro e i Pelasgi, come gli Etruschi, i Sardi, occupavano già nella Tirrenia quando giunsero gli esuli di Eritia la Daitya della mitologia indù. Questa Isola, figlia dell’Oceano, è descritta come posta all’Occidente con il sole che tramonta ai piedi della sua montagna cioè il picco di Tenerife. Eritia la meta di Ercole, l’isola rossa di Gerione, è anch’essa una terra del sole calante ed è posta ad occidente di Gadir. Il poeta Stesicoro definisce la posizione dell’isola Eritia quasi esattamente di fronte a quel fiume chiamato anticamente Tartesso.
 
Dopo la morte di Iasone, Dardano si recò in Troade su una barca dove fu accolto dal re Teucro che gli diede in sposa la figlia Batea. Ideo, aveva seguito il padre nella Troade, portando con sé le sacre immagini dei Kabiri-Penati, il che permise d’istruire i Troadi al culto misterico dei Kabiri, mentre a Samotracia continuarono ad essere celebrati i riti iniziatici. Ideo poi prese dimora sul monte Ida, che secondo alcuni, trasse da lui quel nome, e istituì i sacri misteri della Grande Madre (Cibele).
 
Dardano stabilitosi in Troade fece generare alla regina Batea un’altra coppia di fratelli Erittonio ed Ilo. Erittonio il successore di Dardano regnò sulla Troade ed ebbe fama di essere un uomo molto ricco, a cui successe Troo suo figlio, che diede il nome sia a Troia che alla regione da loro abitata, la Troade. Troo ebbe quattro figli dal matrimonio con Calliroe, fra cui Ganimede, e Ilo il Giovane.
 

[1] Dionigi di Alicarnasso nel primo libro delle sue “Antichità Romane” (68-69).
[2] Nella Genesi ebraica abbiamo i gemelli Caino ed Abele.
[3] Caino uccide Abele, la materia uccide lo spirito, all’inizio, con la caduta nella manifestazione, la materia predomina sullo spirito. Poi per non far apparire l’umanità discendente da un omicida i dotti compilatori della Bibbia fanno comparire Set, ma Caino non muore, maledetto da Dio, fuggì perseguitato dal rimorso, nel paese di Nod ad oriente dell’Eden, portando con sé sua moglie (Genesi 4,16-2).
[4] Gli Arcadi si vantavano di essere più antichi della Luna.
[5] Omero narra che i Pelasgi aiutarono militarmente i Troiani i loro cugini cicogne.
ARCADIA LA TERRA PRIMORDIALE

Secondo alcuni, Zeus nacque in Parrhasia, nel meridione dell’Arcadia. L’Arcadia è il continente del primo uomo fisico Pelasgo, capostipite dei Pelasgi; egli emerse dal suolo dell’Arcadia, subito seguito da altri uomini ai quali Pelasgo insegnò come costruire capanne e nutrirsi di ghiande e cucire tuniche di pelle. Pausania afferma che fu Pelasgo il primo uomo vivente. Il poeta epico Asios ci racconta che la nera Terra pose Pelasgo nei monti boscosi dell’Arcadia affinché nascesse il genere umano. Pausania afferma che Pelasgo fu il primo uomo vivente. Pelargos significa cicogna ed è in relazione con il Cigno divino che all’inizio dei Kypria accoppiandosi con Nemesi fece nascere Elena colei che doveva causare l’annientamento dell’umanità.
 
Dionisio d’Alicarnasso (60 a.C. circa - 7 a.C.), narra che Atlante fu il primo re di Arcadia viveva presso il monte ora chiamato Taumasio. La Terza Generazione, la prima razza completamente fisica, è creata da Zeus, in Arcadia. Secondo la mitologia greca era la deserta e vergine casa di Pan, dio delle montagne e della vita agreste. L’Arcadia ha sempre rappresentato una terra idealizzata, dove uomini e natura vivono in perfetta armonia. Gli Arcadi si diceva erano un popolo più antico della Luna. Atlante era anche il nome del primo re di un continente che da lui prese il nome, Atlantide. Egli aveva sette figlie, che si dice siano ora annoverate tra le stelle sotto il nome di Pleiadi, una delle quali, Elettra, fu sposa di Zeus e gli diede due figli, Iasone e Dardano[1]. La terra mitica di Atlante è l’Arcadia, quelle delle sue Sette Figlie[2] è Atlantide, che rappresentano le sette regioni di questo continente.
 
Zeus e la  Pleiade Elettra ebbero in Arcadia due gemelli, Dardano e Iasone. In Arcadia, Dardano sposò Crise, la figlia di Pallade, che gli generò due figli, Ideo e Dimante. L’Arcadia era il luogo intenzionalmente non definito, un continente una Terra Primordiale fondata o figuratamente sorretta da Atlante sulle sue spalle.
 
Dardano e la sua famiglia nacquero nel continente primordiale che sotto il nome di Arcadia, è il nome del Terzo Continente abitato dagli uomini della Terza Generazione. Iasone non si sposò, mentre Dardano si unì con Crise, figlia di Pallante, e ebbe i figli Ideo e Dimante. Costoro ereditarono il regno da Atlante e governarono per un certo tempo in Arcadia. L’Arcadia era il luogo-continente primordiale e Pallante era considerato come un re primordiale educatore di Pallade Atena.
 
Dardano e Iasone regnarono, per un certo periodo in Arcadia e narra Dionigi d’Alicarnasso a seguito di una grande Diluvio, il Terzo precisa Nonno di Panopoli, sarebbero fuggiti dall’Arcadia. Poiché la terra non avrebbe potuto sfamare tutti, gli Arcadi si divisero in due gruppi, un gruppo con Dimante eletto a loro re rimase in Arcadia, il suo fratello Ideo seguì il padre Dardano in Samotracia, che fu colonizzata e chiamata Dardania. Il nome Ideo richiama il monte Sacro Ida situato nella pianura di Troia.
 
Avvenne un gigantesco Diluvio, le pianure dell’Arcadia s’impaludarono e ne fu per lungo tempo impossibile la coltivazione. Gli abitanti, che vivevano su per le montagne nutrendosi di cibi meschini, accorgendosi che la terra rimasta non era sufficiente per sfamare tutti, si divisero in due gruppi. Gli uni restarono in Arcadia e si elessero come re Dimante figlio di Dardano, gli altri con Dardano abbandonarono l’Arcadia a bordo di una grande flotta. I due fratelli primordiali si separarono, solo Ideo seguì il padre in Samotracia, che fu colonizzata e chiamata Dardania. Lì vissero poco tempo dato che dovevano scontrarsi con una terra sterile e un mare tempestoso. Lasciati dunque pochi dei loro, i più ripartirono sotto la guida di Dardano (Iasone, infatti, era morto nell’isola). Il nome di Dardano è legato al Terzo Diluvio. Un diluvio mette fine al regno di Arcadia, un cataclisma obbliga i Dardanidi a emigrare, che nel linguaggio allegorico significa che le isole velano i continenti e i Re velano i popoli che essi rappresentano.
 
Platone[3], nelle Leggi, riprende i racconti riguardanti la fondazione di Dardania e di Ilio (Troia). Egli narra di un diluvio universale che ciclicamente annientava uomini e cose, e ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però, come in una sorta di età dell’oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia reciproca. Solo in un secondo momento quando le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: s’innalzarono mura di siepi per delimitare e separare una proprietà dall’altra furono fondati i primi organismi politici. Seguì infine la fase delle costituzioni delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia.
 
ATENIESE: Quella che segue la seconda, e che Omero ha contrassegnato, affermando che la Terza Era così. Ed egli disse: “Fondò Dardania, ché la sacra Ilio non ancora in pianura era stata edificata, città di uomini mortali, che ancora abitavano le falde dell'Ida dalle molte sorgenti”[4]. In questi versi e in quelli riguardanti i Ciclopi egli parla esprimendosi come un dio, seguendo la natura delle cose. Divina è, infatti, la stirpe dei poeti, cantando inni ispirati, ogni volta riesce a cogliere la verità di molti fatti con l’aiuto delle Grazie e delle Muse …
 
ATENIESE: Ilio fu fondata, dicevamo, quando gli abitanti scesero dai monti in una grande e bella pianura, su di un colle non troppo alto, e ricco di molti fiumi che sorgevano dalle sommità dell'Ida.
CLINIA: Così dicono.
ATENIESE: Non pensiamo che ciò sia avvenuto molto tempo dopo il diluvio?
ATENIESE: A quanto pare si trovava allora presso di loro un terribile oblio della distruzione di cui ora stiamo parlando, quando in tal modo fondarono la città collocandola vicino a molti fiumi che scorrevano dalle alture, fidandosi di luoghi non eccessivamente alti.
CLINIA: È chiaro che un periodo di tempo assai lungo doveva separarli da quel fatto.
ATENIESE: E molti altri stati, io credo, venivano ormai fondati, moltiplicandosi la popolazione umana.
CLINIA: E allora?
ATENIESE: E questi stati ad un certo punto mossero guerra contro Ilio, e forse per mare, poiché tutti ormai solcavano il mare senza paura.
 
[1] Dionisio di Alicarnasso: Storia di Roma Arcaica (Le Antichità Romane). Rusconi, Milano 1984.
[2] Come le sette figlie di Niobe.
[3] Platone, Le Leggi, Libro III, 30, 31.
[4] Omero, Iliade, libro XX, versi 215-218.
ELETTRA FIGLIA DI ATLANTE
 
Omero narra che fu Dardano, figlio di Zeus ed Elettra la Pleiade, il progenitore dei signori di Ilio o Troia. Elettra (Ἠλέκτρα), la madre del futuro signore progenitore di Troia, era una delle Sette figlie di Atlante, una delle Sette Pleiadi, che fu amata da Zeus, con il quale generò Dardano e Iasone.
 
Cosa rappresenta Atlante? Atlante, secondo la tradizione più comune era figlio del titano Giapeto e di Climene, una figlia di Oceano e di Tetide anch’essa una Dea delle Acque. Una figlia famosa di Atlante fu Calipso, che significa la profondità delle acque. I figli che Esiodo attribuisce a Giapeto sono due coppie, l’astuto Prometeo e lo stolto Epimeteo, il duro Atlante e il tracotante Menezio. Gli ultimi due più temerari parteciparono alla guerra titanica ma furono sconfitti da Zeus che li punì. Esiodo ed Omero narrano che Zeus vincitore precipitò nel Tartaro con la folgore il temerario Menezio, e costrinse Atlante a lasciare la superficie della terra per raggiungere nelle profondità del Tartaro il padre Giapeto. Questa fu la fine dei primordiali esseri umani quelli della Terza Generazione che si distinguevano per la violenza dei loro atti, caratteristica degli esseri primordiali, i figli della Terra, i Giganti. Atlante fu condannato da Zeus a sorreggere il vasto cielo con le mani e la testa.
 
Il Tartaro, simbolicamente il continente della Quarta Generazione è anche il luogo dove Atlante, raggiunge Giapeto, simbolicamente il continente della Terza Generazione, questo mito un’allegoria dei due continenti entrambi sprofondati sotto al mare.
 
I poeti greci dicevano che Atlante aveva una conoscenza completa delle profondità dell’oceano, ciò significa che egli simboleggiava l’insieme dei continenti che si poggiano come i piedi di Atlante nelle profondità delle acque, in fondo al Tartaro, continenti che si spostano che emergono e che s’inabissano. Secondo il mito Atlante aveva sette figlie[1], che geologicamente rappresentano le sette regioni del globo, i sette continenti, dette dwîpa dalla Tradizione Indù e tutte assoggettate all’Asse Polare, o Asse del Mondo, simboleggiato da Atlante. Dal punto di vista delle Razze, esse rappresentano le sette diramazioni o sottorazze figlie di Atlante, cioè che dimoravano sul continente Atlantide. Naturalmente il mito può essere interpretato anche dal punto di vista astronomico, dove le sette sorelle sono le sette Pleiadi, simbolo delle sette regioni del globo celeste[2].
 
Miti non tramandatici né da Esiodo, né da Omero narrano della rivolta dei Giganti contro Zeus dopo che questi ebbe preso il supremo potere. I Giganti lanciavano enormi macigni contro le sedi degli Dei, macigni che ricadendo in mare e in terra divennero isole e montagne. Questi racconti sono un’allegoria della distruzione di un continente per convulsioni telluriche e della successiva creazione di un altro continente, quello che doveva poi essere popolato dagli uomini della Quarta Generazione, che a sua volta dovrà sommergersi.
 
Il mito narra che Elettra dopo la caduta di Troia, per disperazione volle essere trasformata da Zeus in una delle Pleiadi.
 
... negli scolii ad Arato, ove si dice che Elettra, madre di Dardano lasciò il proprio posto fra le Pleiadi dalla disperazione per la caduta di Ilio e si ritirò sopra la seconda stella del timone ... altri chiamano questa stella Volpe... Proclo ci informa che la stella Volpe rosicchia continuamente la correggia del giogo che tiene uniti cielo e terra; il folklore tedesco aggiunge che quando la volpe riusciva nel suo intento, verrà la fine del mondo ... Questa volpe non è altro che Alcor, la piccola stella di tipo z  presso Ursae Maioris...
 
Da questa piccola testimonianza, riportata da G. de Santillana - H. von Dechend si può dedurre:
 
  1. Che la caduta di Troia significa la fine di una vera e propria età del mondo (per il momento riteniamo che s’intendesse la fine dell’età delle Pleiadi e ciò, fra l’altro, perché Dardano giunse a Troia dopo il Terzo Diluvio, secondo quanto dice Nonno);
  2. Che l’Orsa Maggiore e le Pleiadi raffigurate sullo scudo di Achille, distruttore di Troia, hanno un significato preciso e non sono da vedersi come prova dell’incredibile ignoranza di Omero... In verità sono troppe le tradizioni che collegano l’Orsa Maggiore e le Pleiadi con questa o quella catastrofe perché le si possa esaminare tutte[3].
   
                                                                                           
 

Figura  1. Lo Scudo di Achille
 
Efesto il fabbro divino, fabbricò per Achille l’armatura, l’elmo col cimiero dorato e gli schinieri, ma l’arte di queste armi è liquidata con poche parole; ben di più sono spese per il grande scudo tondo decorato a sbalzo, che fu fatto per primo. Era un’opera d’arte, realizzata con cinque zone, racchiuse in un bordo triplo; oro e argento erano stati usati in profusione. Lo scudo che Efesto fece per Achille è diviso in cinque parti, nella prima delle quali c’è la rappresentazione dell’universo.
 
E fece per primo uno scudo grande e pesante,
ornandolo in ogni sua parte; un bordo vi pose, brillante,
triplo, scintillante, poi una tracolla d’argento.
Cinque dunque erano le parti di quello scudo, a cui
fece molti ornamenti con somma maestria.
Vi modellò la terra, il cielo e il mare,
l’implacabile sole e la luna piena,
e tutte quante le costellazioni che incoronano il cielo,
le Pleiadi, le Iadi e la forza d’Orione
e l’Orsa, che chiamano col nome di Carro:
quella gira su se stessa e guarda Orione,
e sola non si cala nelle acque di Oceano[4].
                       
 
Figura 2. Orione – Le Iadi – Le Pleiadi
 
De Santillana, anticipa l’informazione che le vicende di Troia, non riguardavano la piccola regione dell’Asia Minore e una città di nome Troia distrutta dagli Achei, ma alla distruzione dovuta a forze extraplanetarie, di una sorte di cosmos, un continente, noto sotto il nome greco di Atlantide. I miti in questione, di cui si ha traccia nel Mahabharata Indù, si rifacevano a storie e miti molto più antichi, ripresi in epoche più recenti da Omero. I Diluvi secondo il linguaggio mitico rappresentano le distruzioni totali. Nella letteratura greca vengono ricordati tre funesti eventi: il diluvio di Ogige, quello di Deucalione, e quello di Dardano.
 
Come mai nello scudo di Achille sono rappresentate le Pleiadi, le Iadi, Orione e l’Orsa?
 
Il mito narra che le Pleiadi erano inseguite e perseguitate dal cacciatore Orione. I racconti mitici narrano che Orione, figlio di Poseidone il Dio dell’oceano, era un bellissimo Gigante che aveva il potere di camminare sulle acque, ed era noto anche sotto il nome di colui che produce l’acqua, poiché la costellazione di Orione porta le piogge sia quando si leva in cielo sia quando tramonta. Era il focoso, cacciatore accompagnato da un cane fedele. Si racconta che la Dea Artemide (colei che uccise i figli di Niobe) si innamorò di lui facendolo suo compagno di caccia. Le Iadi, le sorelle delle Pleiadi, sono le stelle della pioggia e del Diluvio.
 
Si racconta inoltre che egli perseguitò le Pleiadi, inseguendole per cinque o sette anni. Si narra che le Pleiadi fossero compagne di Artemide e che la Dea volle punire il gigante facendo sorgere dalla terra uno scorpione che uccise sia lui sia il suo cane. Lo Scorpione è il segno zodiacale dove apparentemente muore il Sole. Orione, come Ercole è l’immagine del Sole, che in questa interpretazione del mito rappresenta il Magnete Cosmico.
 
Alcione la stella più brillante delle sette sorelle, era considerata dagli antichi il fulcro attorno al quale ruotava l’intero universo: i Caldei chiamavano le Pleiadi, Chimah, che significa cardine. Orione fu trasportato nei cieli, dove divenne una costellazione, eternamente inseguita dallo Scorpione, e il suo cane divenne la stella Sirio. Gli Egizi collegavano la costellazione di Orione con il Dio Osiride, mentre il fedele cane divenne Sirio, la Stella del Cane Upuaut, il cui nome significa “Colui che apre le Vie”.
 
Racconti mitici ebraici associano le Pleiadi e Orione con Diluvio, dicono che ancora oggi l’Orsa (Maggiore) insegue le Pleiadi, vuole i suoi piccoli, due stelle tramite le quali si sono chiusi due buchi nel cielo da cui dovevano scendere le acque del diluvio celeste, ma non riuscirà ad averli fino alla fine dei giorni. Probabilmente i due gruppi di stelle hanno polarità elettromagnetica tale che un loro ravvicinamento è in grado di provocare grandi cataclismi. La leggenda delle Pleiadi più famosa della tradizione dei nativi americani è la storia della “Torre del Diavolo in Wyoming”, una roccia vulcanica che la tribù locale dei Kiowa chiama Mateo Tepe. Il mito narra di sette fanciulle si accamparono vicino al fiume in una regione famosa per la presenza di un grande numero di orsi. Uno degli orsi iniziò a inseguire le fanciulle che s’inginocchiarono a pregare per chiedere aiuto agli dèi. Il terreno venne fatto salire sino al cielo. L’orso, tentando invano di seguirle, colpì con una zampata un fianco della roccia, lasciando una traccia visibile sulla Torre. Per proteggere le fanciulle il Grande Spirito permise loro di restare in cielo come le sette sorelle, le Pleiadi.
 
Le Pleiadi sono un gruppetto di sette stelle nella costellazione del Toro, nettamente visibile a occhio nudo nella costellazione del Toro durante le lunghe notti invernali. La forma ricorda vagamente quella di un’Orsa Maggiore in miniatura. Si vedono solo sei stelle, la settima è visibile solo in condizioni di buio totale.
 
Figura 3. Le Sette Sorelle, le Pleiadi
  
 

[1] Le sette figlie di Atlante sono le Pleiadi: Alcione, Asterope, Celeno, Elettra, Maia, Merope,Taigete.
[2] La chiave per interpretare un mito, uno scritto sacro, deve essere girata sette volte, in quanto il personaggio del mito è una rappresentazione dei: Poteri del creato, Forze Cosmiche, Divinità, Re Divini, corpi celesti, Poteri Spirituali, Eroi ed uomini.
[3] G. de Santillana - H. von Dechend, Il Mulino di Amleto, Adelphi.
[4] Iliade 478-608.
I KABIRI, I PROGENITORI
 
All’inizio della creazione compaiono due fratelli gemelli, in questo mito Dardano e Iasone. I Pelasgi sono i discendenti di Iasio o Iasone, e venivano anche chiamati Pelargi o cicogne. Varrone e Dionisio di Alicarnasso, dicono che la nascita di Dardano e Iasone era avvenuta in Arcadia. Da qui, i due fratelli sarebbero emigrati a Samotracia, dove avrebbero introdotto la religione misterica dei Kabiri o Grandi Dei. La Samotracia si racconta, fu colonizzata dai misteriosi Pelasgi, i cui antenati vivevano in Arcadia. Il nome generico di Kabiri era “Fuochi Sacri”, che crearono su sette località dell’isola di Elettra o Samotracia, il Kabiro nato nella città santa di Lemno, l’isola consacrata a Vulcano. I misteri Kabirici comprendevano la dottrina sulle origini dell’umanità. Secondo Pindaro, Adamas era il nome del Kabiro: l’archetipo di tutti i maschi, il tipo dell’uomo primitivo nato dalla terra. Anche Ippolito, scrittore cristiano del III sec. d.C., compara Kabiro ad Adamo. I Kabiri erano allo stesso tempo sacerdoti ed Eroi deificati, venerati come autori della religione e fondatori della razza umana.
 
I loro misteri erano celebrati soprattutto in Samotracia, nel buio della notte e nel segreto più assoluto. Samotracia è un’isola famosa per i suoi Misteri; forse i più antichi mai instaurati nella nostra razza attuale. I Misteri Samotraci erano rinomati nel mondo intero. Nell'antichità, quest’isola fu sommersa da un Diluvio che raggiunse le vette delle più alte montagne. Ciò avvenne prima dell’era degli Argonauti. L'inondazione repentina fu causata dalle acque dell’Eusino, un fiume che fino a quel momento era stato considerato un lago. La Samotracia fu dapprima colonizzata da quel misterioso popolo che si chiama Pelasgi, e subito dopo arrivarono i Fenici. L’isola non somiglia alle altre numerose isole che costellano il mare Egeo, è più alta e dotata di una strana forma piramidale, spesso avvolta da una foschia tenebrosa. Questa mole emergente dalle acque ispirava un timore reverenziale.
 
Il culto dei Kabiri il cui ricordo si perde nella notte dei tempi, era legato ai Fuochi Sacri e alle grandi energie vulcaniche, i loro templi erano sempre costruiti in località vulcaniche. Kabeiros significa potente per mezzo del fuoco, naturalmente vulcanico.
 
Essi edificarono città enormi. Le edificarono con terre e metalli rari. Mediante i fuochi vomitati (dai vulcani), dalla pietra bianca (marmo) delle montagne e la pietra nera (vulcanica). [1]
 
I più antichi resti delle costruzioni ciclopiche sono secondo il Libro di Dzyan, sono opere delle ultime sottorazze della Lemuria (terza Generazione) e le prime atlantiane (Quarta Generazione). Nascono enormi città che questa scomparsa civiltà edificò con pietre e metalli rari, non meglio specificati. Ci può ancora dare una traccia Platone che, nel “Crizia cap. VIII”, ci narra come fosse usato per rivestire i templi e le mura delle città atlantidee un materiale lucente che lui chiamò oricalco: "... e quel metallo che ora solo si nomina, allora era più che un nome, l’oricalco, che in molti luoghi si scavava dalla terra, ed era a quel tempo il più prezioso dopo l’oro". Secondo ipotesi moderne l’oricalco è ottone, una lega di zinco, stagno e rame, ignorando l’affermazione di Platone che parla di un vero e proprio metallo ricavato da cave o miniere.
 
A Tebe, I Kabiri Kore e Demetra, avevano un santuario[2], e a Memfi i Kabiri  avevano un tempio così sacro, che nessuno all’infuori dei sacerdoti era ammesso nei suoi santi recinti.[3] Cicerone, parlando del Prometeo di Eschilo, definisce il furto del Fuoco come il “furto di Lemno”. Luogo della scena sarebbe stato dunque in Eschilo, l’isola di Lemno, in quel luogo nel cratere Mosychlos. Essi erano venerati soprattutto a Samotracia, isola appartenente all’arcipelago delle Sporadi settentrionali, e in altre isole vicine, in particolare a Lemno e ad Imbro; nel grande tempio di Samotracia si celebravano i Misteri.
 
I Kabiri venivano chiamati i Grandi Dei (“Megaloi Theoi”), i Potenti che secondo alcuni erano in numero di Quattro[4], in realtà erano Sette in tutto. Attraverso una tradizione risalente almeno a Dionisodoro ed a Mnasea di Patara, sappiamo che nell’isola di Samotracia, durante la celebrazione dei Misteri, i Kabiri venivano invocati con i nomi di Axieros (Demetra), Axiokersa (Persefone), Axiokersos (Ades) e Cadmilos (Ermete). Cadmilos, l’ultimo dei quattro era il più elevato era rappresentato con un cubo a sei facce che sviluppato diventa una croce di tre e di quattro facce, sette in tutto.
 
Acusilao di Argo (storico e mitografo greco del V secolo a. C., di cui sono rimasti pochissimi frammenti), narra che una figlia del dio marino Proteo, famoso per l’abilità con la quale sapeva assumere diverse e svariate forma di esseri animati e inanimati, chiamata Kabiro (e dalla quale avrebbero tratto noma i Kabiri) aveva avuto da Efesto un figlio, Cadmilos: da questi discesero tre rampolli maschi, i Kabiri, e tre figlie, le ninfe Kabiridi; secondo altri autori peraltro, come Ferecide, Kabiri e Kabiridi sarebbero nati direttamente dal connubio tra Kabiro ed Efesto.
 
Il significato occulto del numero Sette e dei Kabiri, implica la generazione fisica, infatti, la parola sesso, in origine era “ax”, poi con il passare del tempo divenne “sex” e se diamo un nome aspirato a uno dei Kabiri, ad esempio Axieros, lo pronunciamo Sexieros. Il nome di una compagna di Prometeo era Axiothea che la mette in rapporto con i nomi conosciuti dei Kabiri. I Kabiri erano dunque di due sessi, a Tebe le Kabiri avevano un santuario, mentre a Menfi lo avevano i Kabiri. A Lemno si parlava di Tre Kabirie figlie della Grande Madre e del Kabiro suo sposo. Le Tre Kabirie avevano come mariti Tre fratelli Kabiri, Sei in tutto, tre coppie.
 
Nella sua Trilogia degli Argonauti, Eschilo dedicò un’intera tragedia agli esseri primordiali di Lemno, sotto il titolo Kabeiroi. Nel mito della fondazione del santuario kabirico presso Tebe si raccontava che in quella regione anticamente ci fosse una città abitata da uomini kabirici, ad uno di questi antichi, Prometeo, e a suo figlio Aitnaios, l’Etneo o Efesto, Demetra portò loro i Misteri[5]. Egli avrebbe generato altri Kabiri che perciò sarebbero stati chiamati Efesti, che come lui portavano il martello del fabbro. Ad essi è attribuita l’invenzione delle lettere, delle leggi, dell’architettura. Essi sono il prototipo dell’umanità conosciuti anche sotto i nomi di Manu, Mani o Lari, quest’ultima parola in etrusco è Lars e significa conduttore, guida. Pausania scrive di non poter tradire dicendo chi erano veramente i Kabiri. Prometeo che fra i Titani appare un figlio, una figura di secondo piano, qui appare come un Padre, il più venerabile fra tutti i Kabiri. I Misteri celebrati in Samotracia in loro onore erano noti come Misteri del Fuoco Sacro, il Fuoco Creatore.
 
Crise aveva portato in dote a Dardano le sacre immagini delle Grandi Divinità di cui era sacerdotessa, e Dardano ne introdusse il culto a Samotracia, pur serbando segreti i loro veri nomi. Le sacre immagini degli Dèi misteriosi delle nazioni antiche, tra gli Israeliti, erano adoravate sotto il nome di Teraphim. Terah[6], il padre di Abramo, aveva con sé dei Teraphim, degli idoli, delle statue, che in seguito vengono adorati da Micah, dai Daniti[7] e da altri. Quando Rachele, la futura moglie di Giacobbe o Israele, fugge dalla casa paterna, ruba e porta con sé queste statuette misteriose. Abramo soggiornò nella terra di Canaan, a Hebron[8], la città dove si veneravano i Quattro Kabiri. Kabir, Gheber (Uomini Potenti, Giganti), Heber potrebbe anche essere la radice etimologica di Ebrei[9], applicata ai Giganti del sesto capitolo della Genesi, quello che precede il Diluvio universale.  

[1] H.P.B., La Dottrina  Segreta, Stanze di Dzyan, XI, 43.
[2] Pausania, IX, 22 ; 5.
[3] Erodoto, III, 37.
[4] Attraverso una tradizione risalente almeno a Dionisodoro ed a Mnasea di Patara, sappiamo che nell’isola di Samotracia, durante la celebrazione dei Misteri, i Kabiri venivano invocati con i nomi di Axieros (Demetra), Axiokersa Persefone), Axiokersos (Ades) e Cadmilos (Ermete). Cadmilos, l’ultimo dei quattro era il più elevato era rappresentato con un cubo a sei facce che sviluppato diventa una croce di tre e di quattro facce, sette in tutto.
[5] L’uomo proviene dalla terra, fatto di fango come conferma la Bibbia, ma diventa uomo solo nella seconda fase della sua creazione, per mezzo del perfezionamento nel segno di Demetra e di Prometeo.
[6] Terah, il creatore di immagini. La tradizione popolare afferma che tramite queste immagini venivano fatte delle divinazioni.
[7] Giudici, 17-18.
[8] Hebron era la città degli Anakim, re, principi. Hebron era chiamata Kirjat-Arba, la Città dei Quattro. Secondo la leggenda, in quella città un Isarim, un Iniziato, trovò la famosa Tavola Smeraldina sul corpo morto di Ermete.
[9] Heber, remoto progenitore dei Terafiti, ai quali apparteneva Abramo. Altri autori invece fanno derivare il nome da Heber (al di là), perché Abramo era venuto da Haran (Harran), regione situata “al di là” (del fiume Eufrate).
I DISCENDENTI DI DARDANO
 
Figura 1. I Dardanidi

 
Dopo la morte di Iasone, suo fratello gemello, Dardano lasciò la Samotracia e si recò in Troade su una barca, dove fu accolto dal re Teucro che gli diede in sposa la figlia Batea da cui ebbe una coppia di gemelli Erittonio e Ilo il Vecchio. Dardano divenne re della Troade cui diede il nome di Dardania. Ideo seguì il padre in Troade portando con sé le sacre immagini dei Kabiri.
 
Ilo non ebbe figli o discendenza, il gemello di Dardano Erittonio, regnò sulla Troade ed ebbe fama di essere un uomo molto ricco, cui successe Troo suo figlio, che diede il nome alla regione da loro abitata, la Troade. Troo ebbe quattro figli dal matrimonio con Calliroe, fra cui Ganimede, e Ilo il Giovane. Calliroe, in questo mito è la figlia del dio fluviale Scamandro figlio di Zeus e di Doride, figlia di Oceano e di Teti; Scamandro è anche il nome del fiume che nascendo dal monte Ida, percorre tutta la pianura troiana. Per i greci, gli Dèi dei Fiumi, tutti figli dell’Oceano Primordiale — il Caos, nel suo aspetto maschile — erano rispettivamente gli antenati delle razze elleniche. Per essi l’Oceano era il Padre degli Dèi; per cui, da questo lato, essi avevano anticipato le teorie di Talete[1], come Aristotele fa giustamente osservare in Metafisica.
 
Secondo una tradizione[2], Ilo il Giovane, il figlio di Erittonio e discendente di Dardano, si recò in Frigia, dove partecipò a dei giochi che erano già iniziati, voluti da un re di cui si tace il nome. I giochi olimpici nell’antica Grecia avevano un carattere sacro, le celebrazioni festive di olimpia avvenivano ogni quattro anni, e il periodo fra due olimpiadi era di 49 mesi che divenivano 50 contando quello dell’olimpiade. Questi giochi si svolgevano durante il periodo del solstizio estivo, duravano cinque giorni e dovevano terminare col plenilunio.
 
Pausania collega l’origine dei Giochi con la gara voluta da Zeus per ricordare la sua vittoria su Crono. I Giochi avevano una durata di cinque giorni. A Olimpia avrebbe avuto luogo, secondo la tradizione, la contesa tra Crono e Zeus per il possesso dell'Universo e qui avrebbero gareggiato tutti gli Dèi, dando origine ai giochi dei quali Apollo risultò vincitore. In seguito Ercole, sfidando nella corsa i suoi 5 fratelli, avrebbe regolamentato le gare, stabilendo che avrebbero avuto luogo ogni cinque anni, e assegnando in premio al vincitore una corona intrecciata con i rami di ulivo[3] che aveva preso nel paese degli Iperborei. L’ulivo era sacro ad Atena, la dea della Sapienza.
 
I numeri del tempo ciclico quattro, cinque, quarantanove, cinquanta, mascherano il ciclo, il tempo concesso agli uomini. Infatti, Ilo giunse a giochi già iniziati, in altre parole a ciclo iniziato; li vinse ed ebbe dal Re come premio per la vincita dei giochi, 50 giovani e 50 fanciulle e una vacca multicolore, come la vacca dei Kabiri.
 
Danao aveva cinquanta figlie femmine, Egitto aveva cinquanta figli maschi. Ercole si unì in una notte con le 49 figlie di Thespio, ma la cinquantesima s’oppose divenendo sacerdotessa di Ercole. Le Thespiadi generarono cinquanta figli, Sette di questi rimasero a Thespio, Tre furono inviati a Tebe, Quaranta[4] partirono con Iolao a colonizzare la Sardegna, dove sconfissero gli indigeni. Tutti questi numeri sono legati ai conteggi segreti dei cicli temporali.
 
Secondo l’antichissimo Libro dei Mutamenti cinese “I King”, il numero della quantità totale è Cinquanta. Nel Vishnu Purana la terra sferica che galleggia nell’Oceano dello Spazio viene divisa in Sette Zone ed ha l’estensione di 50 crore di yogiana. In definitiva la semisfera inferiore da cui uscì il Creatore degli Indù il dio Brahma ha un’estensione di 50 unità ed è divisa in 7 parti. Le sette zone sono indicate come sette oceani o divisioni di materia, e poiché ogni tipo di materia è settenario otteniamo 7x7 = 49, valore che sommato all’Unità che rappresenta il centro del cerchio, si ottiene il numero cinquanta. Il Giorno del Giudizio è il cinquantesimo che nella tradizione cristiana è il numero del Giubileo. Il periodo fra due celebrazioni o giochi ad Olimpia era di 50 mesi, mentre l’intervallo vero e proprio era di 49 mesi. Il periodo delle feste di Eros, il dio del desiderio e della generazione sessuale, le Erotidia a Thespio, presso Tebe, era appunto uguale a quello delle olimpiadi, ed entrambi i periodi seguivano l’antica legge del rinnovamento scandito dal cinquantesimo mese, in ricordo del rinnovamento generale scandito dal cinquantesimo Anno Divino. La somma delle due semisfere è 100, il numero degli anni divini di Brahma, che secondo il calendario bramanico, coincidono con la durata del nostro sistema solare.

[1] Talete, il grande filosofo naturalista, sosteneva che l’Acqua è il princìpio di tutte le cose nella natura.
[2] Apollodoro, III, 12, 3.
[3] All’Iniziato dopo aver superato tutte le prove nei sacri Misteri, veniva posta in testa una corona di foglie. Gli Iniziati erano unti con olio di oliva.
[4] Sette, Tre e Quaranta sono numeri sacri. Quaranta è il numero usato dai Semiti per indicare un periodo completo composto da quattro tempi. Quaranta sono i giorni del Diluvio di Noè.
LA DEA PELARGE - I MISTERI KABIRICI
 
I Dardanidi, i discendenti di Dardano, chiamati anche Pelasgi, sono descritti come cicogne o gru e sono connessi con il mistero della Dama dei Cigni, Nemesi. Elena, è la Donna Primordiale, l’immagine di sua Madre Nemesi o Leda ed è in relazione con gli uccelli palustri, simboli dei Kabiri e dei Troiani, nonché dei loro cugini italici, dove era venerata sotto forma della terribile Artemis o Diana, colei che nel mito tebano con il fratello Apollo, uccide con le frecce[1] i Dodici figli di Niobe.
                                                                                                                                               
La figura di Nemesi è stata paragonata anche a quella forma d’apparizione di Artemis che era venerata in uno dei santuari più nascosti fra le foreste vergini dell’antichità: la Diana del Lago di Nemi ... Le forme preomeriche delle divinità sono, in generale, caratteristiche per l’Italia antica mentre l’antichissimo tipo alato di Artemis è documentato dai ritrovamenti ... vediamo la dea alata sui vasi, terrecotte, lamine e cammei arcaici, e non solamente nella sua qualità di Signora delle belve, ma anche Signora degli uccelli palustri, “La Dame aux cygnes”... Leda ... l’amata del cigno mitico (Zeus) [2].

 
Figura 1. Dea alata su buccero etrusco a forma di anatra - Uccello palustre, simbolo di Leda
 
Cigno, oca e indubbiamente anche l’anatra tanto spesso raffigurata sui vasi greci, costituiscono un gruppo di uccelli acquatici, dal quale, come da un materiale omogeneo in cui le singole particolarità di questi animali non hanno importanza, in un’epoca arcaica si era formata la mitologia della divina madre e di sua figlia e ciò che essa esprime: il destino della donna, dell’anima, dell’uomo.
 
Il viaggio di Dardano, che nel mito italico narrato nell’Eneide da Virgilio, inizia in Etruria[3] anziché in Arcadia, per terminare in Troade, appare come una migrazione di un popolo che probabilmente era noto col nome di Cicogne o Gru, sia perché Dardano era figlio di Zeus che all’inizio della creazione appare sotto forma di Cigno, e sia perché i Troiani venivano da Omero[4] associati alle cicogne.
 
i Troiani avanzarono lanciando grida e richiami, come gli uccelli, così gridano le gru sotto il cielo, quando fuggendo l’inverno e le piogge incessanti, esse volano stridenti verso l’Oceano, portando ai Pigmei alla distruzione e la morte[5].

Figura 2. Pigmei che lottano contro le gru[6]
 
Ha poco senso affermare che i Pigmei[7] erano uccisi da uccelli acquatici, l’interpretazione del testo non può essere letterale. L’interpretazione del mito deve essere fatta su almeno due altri livelli.
 
Il primo livello è quello misterico, le Gru sono l’immagine dell’anima umana, mentre i Pigmei, considerati come nani cattivi e malfattori sono gli uomini primitivi vittime delle loro passioni morbose, che soccombono al Fato o al Karma decretato dalla Legge Divina.
 
Il secondo livello di interpretazione riguarda avvenimenti storici antidiluviani. Omero scrisse che quando le gru fuggendo l’inverno esse volano verso l’Oceano portando ai Pigmei la distruzione e la morte. Le gru sono i Troiani, i discendenti di Pelasgo, gli Eroi-Giganti della Quarta Generazione, che combattono contro i Pigmei rappresentanti di un’umanità primitiva e malvagia.
 
Nei Misteri Kabirici era rappresentato il tema della Lotta fra i Pigmei e gli uccelli acquatici. Karóly Kerényi in un suo scritto sui Misteri kabirici[8] cita un gruppo di raffigurazioni vascolari del santuario kabirico presso Tebe, dove si vedono dei piccoli nani, dei pigmei con enormi falli, insieme con uccelli acquatici, delle superbe gru. Il pigmeo rappresenta l’uomo rozzo e primitivo attaccato alla terra e per questo raffigurano come un nano. Le superbe gru sono gli uccelli del cielo che rappresentano l’elemento iniziatore che deve innalzare ciò che è legato alla terra. Questi uomini primitivi, sorti dalla terra come funghi, sono i Datyloi Idaioi, i diti dell’Ida[9] o formati per mano di una Dea. Essi erano servitori della Madre degli Dei. Nelle cerimonie misteriche, gli imperfetti, erano rappresentati come nani ed esageratamente fallici, per simboleggiare dove era accentrata la loro coscienza. Demetra la  Madre Misterica nei riti kabirici diviene Pelarge[10], forma femminile di pelargos, la cicogna.
 
Era essa a elevare l’uomo guerriero e propagatore di morte alla funzione, alla dignità e alla coscienza di originatore di vita … A ciò può alludere anche il nome del luogo d’iniziazione della Pelarge, “Alexiarus”, “allontanatore del dio della guerra”. Gli archetipi degli uomini iniziandi, i Kabiri, avevano qualcosa dell’assassino, qualcosa da espiare come tutti i guerrieri[11].
 Karóly Kerényi scrive che Pelarge è la forma con cui appare la Dea Cicogna, la Signora dei Cigni, la Grande Madre. Il culto segreto kabirico aveva anche a che fare con le origini della vita, e ancora oggi si racconta ai bambini che è la cicogna a far nascere e a portare i bambini. Il secondo aspetto del mito riguarda le vicende di antichissimi popoli: Il nome di Pelarge diviene in un altro dialetto Pelasge ed è connesso col popolo Pelasgo, antichissimo popolo, tanto che Pausania afferma che Pelasgo fu il primo uomo vivente. Il popolo Pelasgo era considerato un eterno vagabondo, un popolo errante che proveniva dall’Arcadia. Diodoro scrisse che gli indigeni dell’isola di Samotracia (i Pelasgi), isola kabirica avevano una propria lingua antica non greca, affine all’etrusco e che i Greci chiamavano la lingua dei Pelasgi. I Pelasgi sono i discendenti di Iasone, il fratello di Dardano, e venivano anche chiamati Pelargi o cicogne, proprio come loro lontani cugini, i Dardanidi, i Troiani.
 
[1] La freccia della divinità è assimilata alla saetta, al fulmine.
[2] K. Kerényi, Miti e Misteri, la nascita di Helena, p.44-48.
[3] Kerényi, in Miti i Misteri p. 161, afferma che l’antica lingua non-greca dell’isola kabirica di Lemno sembra particolarmente affine all’etrusco.
[4] Omero narra che i Pelasgi aiutarono militarmente i Troiani i loro cugini cicogne.
[5] Omero, Iliade III, 2-6, citato da M. Baistrocchi in Arcana Urbis, in “Il ritorno dei Dardanidi”.
[6] Pittura vascolare del Kabirion di Tebe.
[7] I Pigmei ricompaiono in una fatica di Ercole, quella legata ai Buoi rossi di Gerione, situati sull’isola di Eritia, al Daitya degli Indù.
[8] Miti e Misteri op. cit. p. 158 - 182.
[9] I Pigmei considerati come i diti dell’Ida, erano soltanto delle mere membra, esseri non completi.
[10] Pelarge instaurò il culto segreto kabirico in una località detta Alexiarus.
[11] Karóly Kerényi, Miti e Misteri p. 181.
LA FONDAZIONE DI ILIO - UN COSMOS
 
Obbedendo a un oracolo, Ilo seguì la vacca avuta in premio ai giochi in Frigia, fino a che giunto sul luogo collinare detto l’Até frigia si sdraiò. In quel luogo obbedendo all’oracolo datogli dal padre Dardano, Ilo fondò una città che chiamò Ilio, ma non la fortificò, compito assegnato al suo successore, Laomedonte. Questa storia è simile a quella della vacca sacra Io, nel mito di Prometeo, e riguarda la nascita di una nazione, di un popolo.
 
Ilio seguì una vacca (kabirica) e dove si fermò fondò una città. La Vacca kabirica è analoga ad “Io” la Dea trasformata in vacca[1] nel mito di Prometeo, e rappresenta la fertilità, la progenie della Grande Madre, cioè le razze umane. Apollodoro[2] c’informa sui colori della vacca sacra che erano il bianco, il rosso, il nero[3]. Questi colori si riferiscono alla progenie della vacca, cioè all’umanità che può essere suddivisa secondo il colore della propria pelle. La razza bianco-bruna, la razza nera, la razza rosso-gialla. L’informazione fornita dai miti è data sempre in modo molto velato, sia che si tratta di miti tramandatici dalla tradizione greca e sia di miti tramandatici dalla tradizione indù.
 
Nel Linga Purana si trova un’allegoria molto suggestiva. I Kumara[4] - gli Dei Rudra com’erano chiamati - sono detti incarnazioni di Shiva, il Distruttore (delle forme esterne), chiamato Vamadeva. Quest’ultimo sorge dal seno di Brahma, ad ogni Manvantara[5], come Kumara, l’Eterno Celibe, il casto, il Giovane Vergine e “ridiviene quattro”; un riferimento alle quattro grandi divisioni delle razze umane, riguardo al colore e al tipo, e alle tre varietà principali ... nel 29° Kalpa[6], in qualità di … Kumara Radice, dal colore della luna, divenne bianco; in quest’ultima trasformazione, egli è rosso (e in questa la versione exoterica differisce dall’Insegnamento esoterico), nella terza giallo; nella quarta nero[7]. I colori di queste razze sono quelli riportati exotericamente dai Purana, mentre l’insegnamento esoterico cita la razza giallo-rossa, la razza nera, la razza bianco-bruna, proprio i colori insegnati nei Misteri Kabirici.
 
Dardano il Progenitore rappresenta la prima sottorazza dei Dardanidi, Ilo il Vecchio e Erittonio rappresentano la seconda sottorazza, Troo, la terza, Ilo il Giovane la quarta, suo figlio Laomedonte, la quinta.
 
Ilo tracciò il solco sacro che segnava i confini del mondo, o della sua città-nazione. Questo rito fu eseguito anche da un discendente di Ilo, Enea, che nel mito italico fondò la città di Roma. Per Plutarco[8], il fosso rappresentava un universo, che aveva il mundus come centro del cerchio. Il sulcus della fondazione di Roma fatto come quello della fondazione di Troia, era stato eseguito in senso antiorario, quello della precessione degli equinozi, dei grandi cicli temporali. Simbolicamente il solco sacro delimita un cosmo ordinato, circondato dalle forze ostili del Caos che premono contro la sua cintura. Quest’immagine è di un continente di cui Troia era il simbolo che doveva velare la verità ai profani.
 
Lo scudo circolare di Achille il maggior artefice dell’espugnazione di Troia, era diviso in cinque parti, sei contando il bordo esterno. Quando gli Dèi si divisero la terra a Poseidone, toccò in sorte Atlantide. Il dio s’innamorò di Clito, una fanciulla che viveva sola dell’isola, e «recinse la collina, dove ella viveva, alternando tre zone di mare e di terra in cerchi concentrici di diversa ampiezza». Entrambe le descrizioni velano la presenza di un piccolo cosmos.                                                                                                              
                
     
                  
Figura 1. Il solco di Ilo - Lo scudo circolare di Achille – Atlantide

 
 
DOV’ERA SITUATA LA MITICA TROIA?
 
Gli archeologi affermano di aver individuato la città di Troia in Asia Minore nel sesto strato dove giace la città trovata da Schliemann. Sono stati trovati i resti di ben nove strati di città edificate dove si trovava Troia. Omero nell’Iliade situa Troia lungo l’Ellesponto, sistematicamente descritto come un mare “largo” o addirittura “sconfinato”, cioè un oceano; è pertanto da escludere che possa trattarsi dello Stretto dei Dardanelli, dove giace la città trovata da Schliemann, la cui identificazione con la Troia omerica d’altronde continua a suscitare forti perplessità. Inoltre Troia, secondo l’Iliade, era ubicata a nord-est del mare, sito che non coincide con quello scoperto da Schliemann. La città di Ilio o Troia scoperta in Asia Minore non coincide con quella del mito narrato da Omero.
 
Sin dai tempi antichi la geografia omerica ha dato adito a problemi e perplessità: la coincidenza tra le città, le regioni, le isole descritte, spesso con dovizia di dettagli, nell’Iliade e nell’Odissea ed i luoghi reali del mondo mediterraneo, con cui una tradizione millenaria le ha sempre identificate, è spesso parziale, approssimativa e problematica, quando non dà luogo ad evidenti contraddizioni, la conoscenza degli studiosi moderni della geografia narrata nei miti è dovuta ad idee preconcette o pregiudizi[9] storici.
 
Strabone si domanda perché mai l’isola di Faro, ubicata proprio davanti al porto di Alessandria, da Omero venga invece inspiegabilmente collocata ad una giornata di navigazione dall'Egitto. Così l'ubicazione di Itaca, data dall'Odissea in termini molto puntuali – secondo Omero è la più occidentale di un arcipelago che comprende tre isole maggiori: Dulichio, Same e Zacinto – non trova alcuna corrispondenza nella realtà geografica dell'omonima isola nel mar Ionio, ubicata a nord di Zacinto, ad est di Cefalonia e a sud di Leucade. Plutarco, il quale in una sua opera, il De facie quae in orbe lunae apparet, fa un’affermazione singolare: l’isola Ogigia, dove la dea Calipso trattenne a lungo Ulisse prima di consentirgli il ritorno ad Itaca, è situata nell'Atlantico del nord, "a cinque giorni di navigazione dalla Britannia"E che dire del Peloponneso, descritto come una pianura in entrambi i poemi?
 
L’ing. Felice Vinci nel suo libro “Omero nel Baltico” partendo dal quanto affermato da Plutarco che l’isola di Calipso era a cinque giorni di navigazione dalla Britannia e da quanto scritto da Omero: “Tenere a sinistra l’Orsa andando verso oriente” – “attraversare il mare nebbioso”, narra che i viaggi di Ulisse narrati nell’Odissea siano avvenuti nei Mari della Norvegia. Per quanto riguarda la località dove sorse la città di Troia, l’ing. Vinci è convinto che ci sia stata una trasposizione di località e che Troia si trovasse nel Golfo di Finlandia. Il libro scritto nel 1995 da Felice Vinci, Omero Baltico, tradotto in varie lingue, espone un’interpretazione storico-letteraria condotta dall'autore sull’ambientazione dell'Iliade e dell’Odissea: secondo Vinci gli eventi in esse narrati non si sarebbero svolti nel Mar Mediterraneo orientale, ma nei mari dell'Europa settentrionale (Mar Baltico e nord Atlantico). Queste ipotesi non sono nuove, perché erano già dibattute alla fine dell’ottocento, infatti, la signora H.P. Blavatsky scriveva oltre un secolo e mezzo fa nell’Iside Svelata:
 
È oggi dimostrato che molti di quei miti sono qualche cosa d’altro oltre la fantasia dell’antico poeta. I Lestrigoni, che divoravano i compagni di Ulisse, sono una gigantesca razza cannibale che si dice abitasse, nei primi tempi, le caverne di Norvegia. La geologia ha confermato, con le sue scoperte, alcune affermazioni di Omero considerate semplici allucinazioni poetiche. Il giorno perpetuo di cui godeva la razza dei Lestrigoni indica che essi abitavano il Capo Nord, dove, la luce del giorno è continua. I fiordi norvegesi sono perfettamente descritti da Omero nella sua Odissea, X, 110; e la statura gigantesca dei Lestrigoni e confermata da ossa umane di dimensioni eccezionali trovate in caverna non lungi da quella regione e che i geologi suppongono essere appartenute a una razza estinta molto tempo prima dell’immigrazione ariana. Cariddi, come abbiamo visto. È stata identificata col maëlstron, e le rocce vaganti (Od. XII, 71) con gli enormi iceberg dei mari artici.[10]
 
Felice Vinci l’autore di Omero nel Baltico, formula una serie di contestazioni alla geografia narrata nei racconti mitici comunemente traslata nell’attuale penisola greca.
 
  • Per Omero il Peloponneso è un’isola pianeggiante e non una penisola montuosa.
  • Omero descrive l’Ellesponto come un vasto mare, non un canale fluviale come lo stretto dei Dardanelli.
  • Per quanto riguarda la Troade, la regione di Troia, l’Iliade la situa lungo l’Ellesponto, sistematicamente descritto come un mare “largo” o addirittura “sconfinato”; è pertanto da escludere che possa trattarsi dello Stretto dei Dardanelli.
  • Sulla Troade di Omero aleggia un clima ben strano: la neve cade anche sulla spiaggia, gli scudi si incrostano di ghiaccio, la nebbia è onnipresente, gli eroi vestono pesanti tuniche anche d’estate e non sudano mai.
       
L’ing. Felice Vinci è convinto di aver individuato nella Norvegia il luogo dove si trovava Troia e dove ebbero sia le battaglie epiche e sia i viaggi di Odisseo: ha individuato la Scheria – la terra dei Feaci, in Norvegia: il Peloponneso e Itaca nelle isole occidentali della Danimarca; la Troade in Finlandia, sulle sponde di quello che in fondo è il Mediterraneo del Nord: il Baltico.
 
Dal racconto sugli schieramenti fornitoci dal poeta Omero nel "catalogo delle navi" Recentemente alcuni studiosi hanno osato mettere in luce alcune coincidenze tra l’Atlantide descritta da Platone, terra perduta tra le fiamme generate da un cataclisma, e la Troia di Omero.
 
  • La descrizione del palazzo reale di Atlantide coincide perfettamente con quella della reggia di Priamo a Troia, anch'essa circondata da canali d'acqua come Atlantide.
  • Ad Atlantide sgorgavano due fonti termali, una d’acqua fredda e l’altra d’acqua calda, proprio come a Troia secondo il racconto di Omero.
  • La posizione vicino al mare, i due fiumi, le monumentali porte Scee, l’incendio finale ed altro ancora.
  • Il diametro della cittadella di Atlantide era di cinque stadi (900 m), esattamente come quello del palazzo di Troia.
  • La flotta di Atlantide disponeva, secondo Platone (Solone), di circa milleduecento navi; quella di Troia, racconta Omero, ne contava 1185. Si sarebbero fronteggiati così 120.000 Achei e 50.000 tra Troiani e loro alleati.      


[1] La Dea Vach degli Indù descritta nei Rig Veda come la vacca melodiosa, dalla quale discende l’umanità.
[2] Apollodoro, III, 3, 1.
[3] Platone narra che pietre di tre colori, bianco nero e rosso, erano adoperate per la costruzione delle case della capitale di Atlantide.
[4] I Kumara sono la  corrispondenza Indù dei Kabiri della Grecia.
[5] Manvantara, tempo dei progenitori o Manu, formato da 71 x 4.320.000 anni (71 Mahayuga).
[6] Kalpa, un giorno di Brahma, 4.320.000.000 anni.
[7] Linga Purana, citato da H.P. Blavatsky, Antropogenesi, V p. 34.
[8] Plutarco, Rom., 11, 1-5.
[9] Il pregiudizio è un giudizio espresso prima di avere a disposizione tutti gli elementi necessari a formulare il giudizio: è un giudizio per la maggior parte delle volte errato.
[10] H.P. Blavatsky , Iside Svelata,  I, 549.
LA PIETRA SIMULACRO DI ATENA
 
Ilo il Giovane dopo essere giunto nel luogo indicato dalla vacca kabirica, pregò Zeus affinché gli desse un segno, e il mattino seguente trovò davanti alla sua tenda il Palladio caduto dal cielo, la pietra simulacro di Pallade Atena, la dea della Sapienza Segreta, lo stesso simulacro che era già in possesso a Dardano. Secondo alcune versioni della leggenda, esistevano due Palladi, uno troiano e uno ateniese, ricavato dalle ossa di Pelope.
 
Il mito di Elettra si ricollegava anche al sacro Palladio. Zeus, colpito da un violento amore per lei, volle violentarla ma la fanciulla fuggì e cercò asilo gettandosi presso il prezioso simulacro della dea Atena. Tuttavia a nulla servì poiché Zeus riuscì nel suo intento e rese incinta la giovane. Del sangue caduto, segno della perduta verginità, cadde sulla statua, profanandola. Adirata, la dea Atena, proprietaria del simulacro, scaraventò il Palladio e la stessa Elettra sulla terra. Oppure fu lo stesso Zeus, irato per l’opposizione di Elettra, a gettarla indignato sulla terra. Secondo altre leggende fu proprio Elettra a donare il sacro simulacro a suo figlio Dardano, il quale la pose all’interno della città Dardania che fondò, come protezione per l’intera rocca.
 
Il primitivo Pallas[1] (Πάλλας), il cui nome significa giovane, è una divinità titanica, figlio di Euribia (figlia di Ponto e di Gea) e di Crio (figlio di Urano e di Gea). I miti raccontano che il gigante Pallade alato con pelle di caprone, stranamente detto il “fanciullo”, voleva violentare la dea Atena, e che essa lo uccise, e con la sua pelle costruì la sua Egida (una corta corazza con le frange, oppure uno scudo magico di pelle di capra, dove in alcune versioni dal suo centro spicca la testa della Gorgone) e poiché Pallade è considerato il Titano patrono della Saggezza o il tutore della Saggezza e Atena identificata come dea della Saggezza ne assume nome e prerogative: “Pallade Atena”. Pallas è anche il Nume di una tribù pelasgica abitante l’Attica, Pallas è tutore della Saggezza. Il Palladio è occultamente collegato ai Pelasgi.
 
Un altro mito racconta che Tritone allevò sia Pallade che Atena ed entrambe le ragazze coltivarono la vita militare, che Atena uccise incidentalmente la sua compagna di giochi Pallade, mentre si era impegnata con lei in uno scherzoso combattimento, armate di lancia e di scudo. Pallade era in questo mito una ninfa figlia di tritone e del lago Tritonide. In segno di lutto, Atena aggiunse il nome di Pallade al proprio. Estremamente rattristata dal fatto, Atena modellò un’immagine di Pallade di legno e attorno al petto legò l’egida, lanciata da Zeus che l’aveva spaventata. Omero nell’Iliade narra che l’egida fosse stata fabbricata da Efesto con la pelle di Amaltea, la capra balia di Zeus. Efesto ne fece uno scudo indistruttibile e resistente perfino alla folgore. Poi posò la statua accanto a Zeus e la onorò. Più tardi Elettra, dopo la sua seduzione da parte di Zeus cercò rifugio in questa statua e Zeus gettò sia lei che il palladio nella terra di Ilio, che costruì un tempio per questa statua e la onorò.
 
Il ricevimento del Palladio differenzia l’epopea di Dardano da quella di Ilo. Obbedendo a un oracolo, Ilo costruì un Tempio e stabilì un culto, quello kabirico. Secondo altre storie, fu Elettra a dare il Palladio a Dardano e questi lo diede ad Ilo.
 
Il Palladio portato da Enea in Italia, che le vergini Vestali custodivano a Roma, come talismano della città indicava una pietra grezza o un oggetto di culto attorno al quale danzavano le ragazze di una particolare tribù, come a Thespia. Il collegio romano dei Salî era una comunità di sacerdoti danzatori. Palladia venne interpretata come palta ossia come cose cadute dal cielo. I palta dovevano essere esposti alla volta celeste: ecco perché la sacra pietra di Termine a Roma stava sotto un’apertura del tetto di giove, e un’identica era stata praticata nel tempio di Zeus a Troia.[2]
 
Il Palladio, la pietra caduta dal cielo, aveva forme diverse, un cubo, un pilastro, simbolo sia del fallo o potere generatore, e sia il simbolo del potere del Fuoco (quello di Prometeo), la Folgore celeste. Questa pietra era un betilo, come quello custodito a Delfi, l’Omphalos, l’ombelico del Mondo. La pietra cui Giacobbe, dopo averla unta impose il nome di Beith-el, la casa di Dio. A Roma c’era il lapis niger (pietra nera, come quelle della Kaaba), e c’erano gli scudi sacri dei sacerdoti Salî, che si diceva che fossero stati intagliati da un aerolito al tempo di Numa. I Semiti designavano col nome di aeroliti le pietre del fulmine. Queste pietre, simboleggiano il fulmine, il Vajra, il Martello di pietra Thor, l’ascia di pietra di Rama, il Dio Indù a cui è dedicato il poema Ramayana.
 
 
Figura 1. Palladio  rilievo del primo secolo d.C.
 
Si comprende perché una grande incertezza regnava tra gli antichi sulla natura e sulle dimensioni del simulacro di Pallade, proprio perché il Palladio era tenuto nascosto e non visibile al popolo. Il simulacro di Pallade Atena con lancia e scudo era solo un’immagine exoterica: lo scudo fabbricato dal Kabiro Efesto era resistente alle folgori; la lancia è il simbolo della folgore. Il simulacro celava dunque la pietra del fulmine.
 
Un rilievo del I secolo d.C. raffigura il Palladio in cima a una colonna intrecciata da un serpente. In cima alla colonna la figura di Pallade Atena, per alludere esotericamente di considerare quello che è rappresentato sotto i piedi del simulacro. La colonna allude esotericamente al betilo, e il serpente all’energia serpentina ad esso collegata.
 
[1] Pallade e Pallante sono varianti di Pallas.
[2] Robert Graves, I Miti Greci, 158.3.
LE INVINCIBILI MURA DI TROIA
 
Ilo il Giovane sposò Euridice che gli generò Laomedonte e Temista: di nuovo il mito si ripete, una coppia all’inizio di un nuovo periodo. Ad Ilo succedette Laomedonte che decise d’erigere le famose mura di Troia. Fu sotto il regno di Laomedonte che Apollo e Poseidone furono banditi dal Cielo per un anno per essersi ribellati a Zeus. I due esiliati si rifugiarono presso il Re di Troia e presentandosi come due muratori s’impegnarono dietro compenso a erigere le invincibili mura di Troia. Secondo una versione del mito fu solo Poseidone a edificare le mura magiche, mentre Apollo come Buon Pastore custodiva il gregge del re. Secondo un’altra versione le pietre si disponevano da sole l’una sull’altra al suono magico della Lira di Apollo. Apollo e Poseidone rappresentano una coppia polare: Apollo in alto nel Cielo e Poseidone in basso sulla terra e sulle acque.
 
  • Poseidone (Ποσειδῶν) è il dio e il re del mare, dei cavalli e, nel suo epiteto di Scuotitore della Terra (Enosìctono), è causa dei terremoti. Poseidone era una divinità tellurica, prima di essere il dio dei mari. Poseidone è considerato il Signore delle Acque, ma le acque dell’oceano si alzano, quando i fondali sottomarini si scuotono. Il tridente è l’arma di Poseidone, in terra, di polarità opposta alle tre folgori di Zeus, in cielo. I tre Ciclopi diedero a Zeus il loro potere cioè quello della Folgore, del lampo e del Tuono, in pratica il potere della Forza Elettrica, e a Poseidone diedero il magico Tridente anch’esso caratterizzato dal triplice potere elettromagnetico.
  • Apollo (Ἀπόλλων) viene raffigurato con la lira a Sette Corde, come il numero delle note musicali  pitagoriche. È descritto anche come provetto arciere, un mito narra che insieme ad Artemide con le sue frecce uccise i figli di Niobe. Gli animali acri associati ad Apollo sono i cigni e i lupi. Si narra che Hermes fanciullo, dopo aver rubato una mandria di vacche ad Apollo, trovò una tartaruga. Egli iniziò a giocarci ma successivamente la uccise vuotandone il guscio. Alle cavità del guscio, Hermes vi applicò due bracci di canna, tra i quali tese sette corde. Fu così che quel guscio di tartaruga venne trasformato in uno strumento musicale. “La Tartaruga che canta” poteva unire al potere oscuro del suono la ricchezza della parola umana. Apollo, rimasto incantato da quella musica, accettò la Lyra in cambio della mandria rapita. “Per loro costruire era facile”, afferma una tipica leggenda maya. “non dovevano far altro che fischiare e pesanti rocce si mettevano a posto da sé”… Una tradizione molto simile sosteneva che i giganteschi blocchi di pietra della misteriosa città andina di Tiahuanaco erano stati trasportati attraverso l’aria al suono di una tromba[1]. Apollo diede a Orfeo il Forminx, una lira a sette corde che suonava così bene, che gli alberi ed i sassi gli correvano dietro, i fiumi sospendevano il loro corso, le bestie feroci si riunivano attorno a lui per ascoltarlo.
   
La variante più nota di Apollo che custodisce le greggi, sia quelle rubate da Hermes e sia quale di Laomedonte si riferiscono alla figura del Buon Pastore, cioè l’Istruttore degli uomini non evoluti simbolizzati come animali. Anche Orfeo, figlio di Apollo, era spesso raffigurato come il Buon Pastore. Ercole l’Istruttore andò sull’Isola Eritia dove tramonta il sole per rubare i buoi rossi di Gerione e portarli in Spagna, Francia e Italia. Le mura di Troia costruite da Poseidone, dovevano essere circolari, precisamente mura circolari ciclopiche, perché i Ciclopi figli di Poseidone[2] avevano costruito mura circolari per Proteo a Tirinto[3]. I Ciclopi di questo mito assimilati ai Pelasgi, sono successivi ai primi Ciclopi delle Teogonia. Platone nel Timeo aveva richiamato espressamente il modello mitico della città circolare degli Atlantidei.
 
Il muro della città aveva un nome speciale ierón krédemnon, sacro velo, un sigillo magico, una protezione circolare contro le forze ostili esterne. Le mura della città costruite dal Signore dell’Oceano sono omologate alle acque dell’oceano. La fondazione di una città ripete in miniatura il mito della Creazione del Mondo, la costruzione di un cosmo ordinato, circondato dalle acque dello spazio non ordinato o caotico[4]. La città diviene così l’immagine di un continente, di un pianeta, di un piccolo cosmos. Il mondo o cosmos ordinato è contenuto in questo cerchio, la cui immagine è riportata sullo scudo di Achille[5] e di Eracle[6]. Negli Inni Orfici[7], la Terra è descritta come un disco circondato dal cerchio dell’Oceano: “Invoco Oceano Padre imperituro, eterno … origine degli dèi immortali, e degli uomini mortali … che cinge intorno tutta la terra in cerchio”.
 
[1] Graham Hancock, Impronte degli Dei. p. 197, Corbaccio.
[2] Euripide, Cycl., 262.
[3] Pausania, II, 16, 6.
[4] M. Baistrocchi  “Arcana Urbis”, ECIG Genova.
[5] Omero, Iliade, XVIII, 478-608.
[6] Omero, Iliade, XVIII, 314.
[7] Inni Orfici – 11. Profumi di Pan vari. Gli inni orfici sono una raccolta di 88 composizioni: un proemio in cui Orfeo si rivolge all’amico Museo e 87 inni, ciascuno dedicato ad una divinità cui il poeta si rivolge direttamente, elencandone nomi e attributi e quasi tutti accompagnati dell’indicazione dell’offerta odorosa appropriata. Secondo la tradizione, proprio Museo avrebbe messo per iscritto gli inni composti da Orfeo.
POSEIDONE IL SIGNORE DEI CAVALLI E DELLE ACQUE
 
Poseidone uno dei due divini muratori costruttori delle magiche mura di Troia era considerato il signore dei cavalli. Secondo Pseudo Apollodoro, Poseidone si trasformò in stallone quando vide Demetra trasformata in giumenta per accoppiarsi con lei, la Dea per l’oltraggio divenne una furia, dal frutto di questa unione fu generata una coppia Arione o Areione (Αρείων), un cavallo dalla nera criniera, e una figlia, di cui non era lecito pronunciare il nome ai non Iniziati[1]. A Figalia il culto locale interpretava Demetra nella sua forma arcaica, con la testa di una giumenta e i capelli di un serpente, e nelle mani una colomba e un delfino.
 
Il nome esoterico non e pronunciabile perché esprime e libera l’energia di ciò che si nomina. Conoscere il nome era conoscere il potere che si cela dietro il nome, sicché la conoscenza del nome dava le chiavi risvegliare nel bene e nel male questo potere.
 
Viceversa il nome exoterico o pubblico è pronunciabile perché è un velo una maschera, e non risvegli le energie o il potere che si cela dietro esso, nel caso della figlia di Demetra il nome exoterico è Despina o Despena, cioè Signora. In Grecia nel santuario di Despina a Licosura a ovest di Megalopoli, la dea era rappresentata coperta da un velo, perciò invisibile, innominabile, dai non Iniziati, mentre tiene nella mano sinistra uno scettro. La parola Despena (Δέσποινα) deriva dal greco miceneo des-potnia, che viene interpretato come “padrona o signora (ptonia) della casa (des)”. Poseidone è Posedao, con lo stesso significato. Demetra dems-mater è probabilmente una parola che può essere interpretata come doms-mater cioè “Madre della casa”.  
 
Despena fu in seguito fusa con Korah (Persefone), la dea dei Misteri Eleusini. I miti dell’Arcadia primitiva mostrano che il culto di Despena era più antico di quello di Persefone. Pausania scrive di non poter tradire dicendo chi erano veramente i Kabiri. Poseidone unendosi con Demetra genera una coppia di cui un figlio è un Cavallo, e una figlia legata al culto misterico.
 
Robert Graves nel libro “Miti Greci” mette in relazione l’unione Poseidone Demetra sotto forma di cavalli, con un simile della mitologia indù. Surya il Sole si trasforma in stallone e si accoppia con Saranya in forma di giumenta, e fa questa unione nascono i Gemelli Asvin, Dei con la testa di cavallo. Questi gemelli sono i Dioscuri Indù, figli del Sole Surya, eternamente giovani e di una gaiezza e brillantezza sovrumana, essi guidano il Carro d’Oro della Dea Usha, l’Aurora. Quello che Graves non ha afferrato è che i due cavalli, i Dioscuri, gli Asvin, rappresentano il Potere elettromagnetico, la Polarità, forza creatrice e distruttrice nello stesso tempo, il misterioso Fuoco Elettrico, un fuoco celeste il cui effetto visibile è la saetta, il fulmine.
 
Poseidone si spostava su di un carro trainato da cavalli e con il suo magico Tridente provocava sconvolgimenti tellurici, tempeste marine, uragani e terremoti. Il mare, di cui è il signore, è miticamente popolato da esseri con sembianze equine: basti pensare agli ippocampi mezzi cavalli e mezzi pesci. Un’allusione alle impetuose onde del mare, chiamate appunto cavalloni, che e che quando diventano tumultuose si abbattono come tsunami violenti sulle rive.
 

Figura 1. Poseidone[2], il potere distruttivo dei cavalloni
 
In onore di Poseidone venivano celebrati i giochi Istmici che si tenevano ogni due anni nei pressi di Corinto. I Greci narravano che Pelope, arrivato in Elide dopo aver vagato a lungo, accettò la gara del re della regione, Enomao. Questi aveva promesso in sposa la figlia Ippodamia a chi avesse saputo rapirla sul suo cocchio ed evitare le frecce da lui lanciate. Tredici pretendenti erano già stati uccisi, non essendo riusciti a raggiungere l’altare di Poseidone sull’Istmo di Corinto. Enomao, infatti, aveva cavalli velocissimi, dono di Ares. Poiché i corsieri di Pelope non erano da meno, essendogli stati dati dal dio del mare, il giovane vinse la gara e sposò Ippodamia.
 
O tu che hai l'eccelsa forza per sempre indistruttibile di Zeus,
 
Ascolta Poseidone signore della terra, dalla chioma turchina,
equestre, che tieni tra le mani il tridente lavorato in bronzo,
che abiti le fondamenta del mare che fai risuonare,
dal cupo fragore, scuotitore della terra,
ricco di flutti, datore di gioia, che lanci la quadriga,
che agiti l'acqua salmastra con sibili marini,
che hai ricevuto in sorte come terza parte la corrente profonda del mare,
che ti diletti dei flutti insieme agli animali, demone marino;
salva le dimore della terra e lo slancio veloce delle navi,
portando Pace, Salute e prosperità irreprensibile.[3]
                   
Narra Platone nel Crizia, che il Tempio di Poseidone ad Atlantide era lungo uno stadio, e largo tre pletri, e di altezza proporzionata a queste dimensioni … tutto il resto - pareti, colonne e pavimento - rivestito di oricalco. All’interno del tempio erano collocate delle statue d’oro, e il dio Poseidone era rappresentato in piedi sul suo carro alla guida di sei cavalli alati. Perché sei cavalli anziché la classica quadriga, composta di quattro cavalli? I commentatori liquidano l’informazione come una fantasia di Platone, in realtà l’informazione è una rivelazione parziale di un argomento misterico.

 
Figura 2. I Sei Cavalli di Poseidone
 
La rappresentazione di Platone di Poseidone il Signore degli Oceani con sei cavalli alati, è un riferimento alle acque dell’oceano celeste.
 
I sei cavalli alati rappresentano le sei direzioni dello spazio. Queste direzioni sono polarizzate: quattro situate sul piano orizzontale, divise in due positive N-E e due negative S-W; due secondo l’asse verticale. Lo Zenit e il Nadir rappresentano le direzioni dei Poli Magnetici terrestri e celesti, i Due Gemelli celesti, i Dioscuri, di tutte le mitologie.
 
Nel mito della costruzione di Ilio, cioè Troia, Laomedonte vuole fortificare la città, la vuole proteggere, in suo aiuto Zeus invia la coppia Apollo Poseidone, che rappresenta le forze del cielo e delle acque. Apollo luminoso in qualche modo è un alter ego di Zeus, mentre Poseidone era il suo fratello.
 
Virgilio nell’Eneide è molto chiaro è Nettuno (Poseidone) che abbatte le invincibili mura di Troia: “Nettuno scuote le mura, ne scrolla col gran tridente le basi e tutta dalle sue sedi sradica questa città” (Aen. II, 610).
 
Narra Esiodo che la guerra di Zeus e dei suoi fratelli contro Crono ed i Titani durò dieci anni e fu tremenda, guarda caso la stessa durata della guerra narrata nell’Iliade. Zeus consigliato dalla Madre Rea, liberò tre i Ciclopi imprigionati da Crono. I tre Ciclopi diedero a Zeus il loro potere cioè quello della Folgore, del lampo e del Tuono, in pratica il potere della Forza Elettrica, e a Poseidone diedero il magico Tridente anch’esso caratterizzato dal triplice potere elettrico.
 
Robert Graves nel libro “La Dea Bianca” scrive che il dio del frassino Poseidone e il dio della quercia Zeus, un tempo erano armati di folgori, ma quando gli Achei sconfissero gli Eoli, il fulmine di Poseidone fu mutato in tridente, e Zeus mantenne il diritto di impugnare la folgore.
 
La somma dei poteri del Signore Celeste e del Signore delle Acque è sei. Il simbolo di questo potere è il doppio tridente, composto da sei punte, e da un asse centrale (la sintesi) noto in oriente come simbolo del Vajra o Fulmine. Ogni punta può essere rappresentata da un colore, tre primari e tre secondari, i colori dell’arcobaleno o del potere elettrico. Il tridente è pure l'arma-simbolo del dio indù Shiva.
 
Figura 3. Il Doppio Tridente
Poseidone, sul carro celeste e i suoi sei cavalli alati (le Sei direzioni dello Spazio), fanno Sette in tutto. Poseidone tiene in mano le sei redini dei cavalli, simbolicamente le sei direzioni dello spazio che escono da un punto centrale, l’origine degli assi cartesiani.
 
In India, il Sole, Surya, ha come veicolo un cavallo a sette teste, e talvolta vi sono invece sette cavalli, guidati dal Dio dai Sette Raggi. Anche Apollo è collegato al numero sette. È il patrono del numero sette: è nato nel settimo giorno del mese, i cigni nuotarono sette volte attorno all'isola dove nacque cantando l’evento della sua nascita, ha una lira con sette corde, rappresenta i sette raggi del Sole, le sette forze della Natura.

[1] Pausania VIII, 37.9.
[2] Rppresentazione dei cavalli di Nettuno, di Walter Crane 1892.
[3] Inno Orfico a Poseidone 17.
I DUE CAVALLI DIVINI DI TROO
 
Nell’Iliade di Omero (V, 265), Diomede racconta che Zeus, affascinato dalla sublime beltà rappresentata di Ganimede figlio di Troo, lo volle sottrarre alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila. Sotto tale aspetto si avventò sul giovane mentre questi stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nei pressi di Troia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un tralcio di vite d’oro (opera di Efesto) e un gallo. Il giovane che pascola il gregge, sul Monte del mistero Ida, il tralcio di  vite d’oro, il ramo d’oro di Enea, il vello d’oro, la pioggia d’oro, le corna d’oro, le mele d’oro, l’età d’oro, il gallo simbolo del Sole (colore oro), sono tutti termini misterici iniziatici.
 
La prima distruzione di Troia per opera di Eracle fu dovuta a un doppio spergiuro. Perché Laomedonte si rifiutò di consegnare a Poseidone e ad Apollo i Due Cavalli Divini di Troo, quale compenso pattuito per l’erezione delle magiche mura di Troia, e quale segreto celavano? Il Cavallo nella antica Tradizione Indo-Europea ha il significato di Potere Divino.
 
La stessa Iliade è, infatti, tutta dedicata al cavallo; dall’Ippocampo, dunque, fino all’Ippodamia (figlia di Argo rapita dal “centauro” Piritoo, re dei Lapiti, ecc.) e dalle onde del mare giocherellanti - i ”cavalloni”- l’immagine del cavallo divenne presto Pegaso alato e Bucefalo ... Il cavallo ... avrà in questa luce una sua particolare carica mitologica in connessione alla guerra di Troia ... L’Iliade e l’Odissea sono dei frammenti incompleti, e neppure gli Inni del grande aedo del IX secolo a.C. ci aiutano a completarli. Così, fra tanti altri episodi “misteriosi” dei due Poemi, anche il mito del Cavallo di Troia appare veridico soltanto ormai per sottinteso. Solo la tradizione orale, perduta per sempre nel mondo dei Greci, riuscirebbe forse a delucidarlo. Inoltre, quella Tradizione “da bocca a bocca” ci fu trasmessa appena dalla sesta Troia in poi, di cui Omero ... è il testimone per sentito dire. In India al contrario la tradizione orale si è conservata intatta[1].
 
In India, il Sole nel cielo, Surya, ha come veicolo un cavallo a sette teste, e talvolta vi sono invece sette cavalli, guidati dal Dio dai Sette Raggi. Elio, il sole dei Greci ha anch’esso un carro trainato da cavalli alati.
 
In India troviamo i Gemelli Asvin, Dei dalla testa di cavallo, i Dioscuri Indù, figli del Sole Surya, eternamente giovani e di una gaiezza e brillantezza sovrumana, detentori dei poteri della guarigione, essi guidano il Carro d’Oro della Dea Usha, l’Aurora.  Ganimede rapito da Zeus per amore, era bellissimo, quanto il Sole, di una bellezza divina, non mortale. Gli Asvin, i Dioscuri, anch’essi giovani, sono rappresentati come semidei e come detentori di segreti della guarigione. Come Dioscuri, sono analoghi ai Kumara, ai Kabiri. I Due Fratelli, i Dioscuri rappresentano la polarità non solo maschile-femminile, ma anche quella elettromagnetica. Non è azzardato affermare che i Due Cavalli Alati personificassero le forze elettromagnetiche di cui il fulmine è l’effetto visibile. Quando Cambise, entrò nel tempio dei Kabiri, scoppiò in una grande risata, vedendo davanti a sé quello che credette essere un uomo e una donna in equilibrio sulla testa[2]. Questi due Kabiri simboleggiano i Due Poli Opposti, sia quelli di natura elettrica, che i Poli Nord e Sud.
 
E invece erano i poli, il cui simbolo voleva ricordare “il passaggio del primitivo Polo Nord della Terra al Polo Sud del Cielo” ... Ma rappresentavano anche i poli invertiti in conseguenza della grande inclinazione dell’asse, che ogni volta portò lo spostamento degli oceani, la sommersione delle terre polari e al conseguente comparsa di nuovi continenti nelle regioni equatoriali, e viceversa. Questi Kabiri erano gli Dei del Diluvio ... Questi in geodesia personificano i poli terrestri, e nell’astronomia i poli celesti, ed anche l’uomo fisico nello spirituale ... Gli elementi tellurici, metallici, magnetici, elettrici, ignei sono altrettante allusioni al carattere cosmico ed astronomico della tragedia del diluvio[3].                                                                                                                                                                                                                                                                                      
 
Figura 1. Simbolismo polare  Coppia di cavalli alati
 
I Due Cavalli, i Dioscuri, gli Asvin, rappresentano il Potere elettromagnetico, la Polarità, forza creatrice e distruttrice nello stesso tempo, il misterioso Fuoco Elettrico, un fuoco celeste il cui effetto visibile è la saetta, il fulmine.
 
Lo scolio di Erodoro fa riferimento a un passo della profezia di Cassandra nel quale la profetessa, figlia di Priamo, sviluppa l’ipotesi di un possibile attacco dei Dioscuri o degli Afaridi contro Troia, le cui mura, sebbene opera di Apollo e Poseidone, πεζνχκαηηεξ ἐνβάηαζ (artigiani, artefici con le mani), non resisterebbero un giorno all’attacco[4].
 
Nel mito del rapimento di Ganimede, figura come rapitrice l’Aquila, la portatrice della Folgore di Zeus. Il mito narra che Ganimede era considerato il più bello fra gli uomini, tanto che Zeus decise di rapirlo per farne il coppiere degli Dei. Si narra che Zeus lo rapì sotto forma di aquila e che per ricompensare Troo della perdita di Ganimede gli regalò Due Cavalli Divini capaci di volare nel vento. Secondo altre versioni sia l’Aquila sia Ganimede furono mutate in costellazioni, precisamente Ganimede divenne l’Acquario. Questo mito in Grecia giustificò la passione amorosa omosessuale di un adulto verso un giovane, e si dice che[5] Platone in un suo scritto si servì di questo mito per giustificare l’amore verso un suo discepolo, ma in altri scritti[6] riferendosi a Ganimede, condanna gli amori sodomiti di Zeus come una malvagia invenzione cretese. Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel giovane possa mai esser stato l’amante carnale di Zeus, proponendone, invece, un’interpretazione spirituale: Zeus avrebbe amato l’anima e la psiche del ragazzo, non certo il suo corpo. Platone come iniziato ai Misteri Maggiori[7] praticava il più rigoroso celibato[8] astenendosi da ogni rapporto sessuale come facevano gli Orfici e i Pitagorici.
 
Il rapimento di Ganimede si presta a due livelli interpretati, il primo il più basso, di lussuria o pederastia cretese come scrisse Platone, il secondo di unione dell’anima col divino. La distruzione di Troia è legata più al primo aspetto. Le varie mitologie collegano i grandi cataclismi a un Dio che punisce le razze immorali, risparmiando i pochi giusti e virtuosi. Il mito di Ganimede s’inserisce in questo contesto, perché vela il mistero delle distruzioni cicliche planetarie.
 
Zeus, quale divinità suprema è la personificazione dell’immutabile Legge Ciclica che arresta la degradazione di ogni generazione di uomini. I greci personificavano la  Giustizia con una Dea, Astrea, conosciuta dagli Orfici come Dike. Se la Dea Orfica non veniva mai fra gli uomini, Dike figlia di Zeus e di Temi, identificata con le Ore, veniva periodicamente fra gli uomini. Si diceva che discendeva dall’Età dell’Oro e si ritirava dagli uomini quando questi non rispettavano la Dike, la Giustizia.
 
Quando si dice agli Dei d’abbandonare la Terra, Astrea, la Dea della Giustizia, è l’ultima delle divinità ad abbandonarla e a essere ripresa in Cielo da Giove. Ma non appena Zeus allontana dalla Terra Ganimede - l’oggetto della lussuria, che la personifica - il Padre degli Dei rimanda Astrea sulla Terra, sulla quale cade sulla sua testa. Astrea è la Vergine, la costellazione dello Zodiaco. Astronomicamente ha un significato chiarissimo, che dà la chiave del senso occulto. Ma essa è inseparabile dal Leone, il segno che la precede, e dalle Pleiadi con le loro sorelle, le Iadi, di cui Aldebaran è il capo brillante. Tutto ciò è connesso con il rinnovamento della Terra, nei riguardi dei suoi continenti; anche Ganimede, che in astronomia è l’Acquario. È già stato osservato che mentre il Polo Sud è la voragine (la regione infernale, in senso figurato e cosmologico) il Polo Nord è geograficamente il Primo Continente; mentre in senso astronomico e metaforico il polo Celeste con la sua Stella Polare è Meru, il seggio di Brahma, il trono di Giove ecc. Infatti, all’epoca in cui si disse agli dei d'abbandonare la  Terra per ascendere in cielo, l’eclittica era diventata parallela al meridiano, e una parte dello Zodiaco sembrava discendere dal Polo Nord all’orizzonte settentrionale. Aldebaran era in congiunzione con il Sole come fu 40.000 anni fa, alla grande festa per commemorare l’Annus Magnus di cui parla Plutarco, da allora - 40.000 anni fa - c’è stato un moto retrogrado sull’equatore, e circa 31.000 anni fa Aldebaran fu in congiunzione col punto equinoziale vernale. La parte assegnata al Toro, anche nel misticismo cristiano, è nota per doverla ripetere. Il famoso Inno Orfico sul grande cataclisma periodico divulga tutto l’esoterismo dell’evento. Plutone nella voragine, porta via Euridice, morsicata dal Serpente Polare. Allora Leo, il Leone è vinto. Ora, quando il Leone[9] è “nella voragine” sotto il Polo Sud, allora la Vergine essendo il segno successivo, lo segue e quando dalla testa fino alla cintola è sotto l’orizzonte, essa è capovolta. D’altra parte, le Iadi sono le stelle della pioggia e del Diluvio; e Aldebaran - colui che segue, o succede, alle figlie di Atlante, le Pleiadi - guarda in basso dall’occhio del Toro. Da questo punto dell’eclittica sono cominciati i calcoli del nuovo ciclo. Il lettore ricordi anche che quando Ganimede (l’Acquario) è salito in cielo - sopra l’orizzonte del Polo Nord - la Vergine o Astrea, che è Venere-Lucifero, discende con la testa in giù sotto l’orizzonte del Polo Sud, la Voragine; la quale voragine, il Polo, è anche il grande Drago o il Diluvio[10].
 
Il commentario alle dodici Stanze di Dzyan descrive così l’annientamento dell’umanità:
 
Quando la ruota gira con velocità consueta, le sue estremità (i poli) concordano col cerchio di mezzo (l’equatore), quando essa gira più lentamente e s’inclina in ogni direzione, sulla faccia della Terra si hanno gravi turbamenti. Le acque affluiscono verso i due estremi, e nuove terre emergono nella cintura di mezzo, mentre quelle all’estremità sono soggette al Pralaya[11], per sommersione[12].
 
Quando i sacerdoti egizi raccontarono a Solone della sommersione dell’isola di Atlantide, dissero che l’evento ebbe luogo dopo che Zeus vide la depravazione degli uomini. Dopo che Ganimede fu rapito dall’Aquila dello Spirito, Astrea può nuovamente discendere sulla Terra, perché siamo all’inizio di un nuovo ciclo. In cambio di Ganimede, a Troo furono donati Due Cavalli Divini, che rappresentano la polarità magnetica planetaria. Il Libro di Dzyan precisa questi avvenimenti:
 
45. Giunsero le prime grandi acque. E inghiottirono le sette grandi isole[13].
 
46. Tutti i santi furono salvati, gli empi distrutti. Con essi molti degli animali maggiori, prodotti dal sudore della terra.
 
47. Pochi rimasero. Rimase qualche giallo, qualche bruno e nero e quello rosso …[14]
 
L’antico Commentario alle Stanze di Dzyan dice che: “Il Grande Drago non rispetto che i Serpenti di Saggezza”. Il Grande Drago la cui coda spazzò via in un batter di ciglia intere nazioni, è collegato alla costellazione del Dragone ed è assimilabile al Grande Diluvio. Le sue “Sette stelle” sono identiche alle stelle dell’Alfa e Omega che il Cristo nell’Apocalisse tiene in mano. Nel Vendidad, nel libro degli zoroastriani, troviamo le lamentele contro il Serpente i cui morsi hanno ucciso l’eterna primavera di Airyana Vaejo presso il bel fiume Daitya, trasformandola in un inverno portatore di malattie e di morte. Questo Serpente, questo Grande Drago, è il Polo Nord, la cui inclinazione rispetto al Polo Celeste produce le stagioni. Per effetto dei morsi l’asse del Polo terrestre non era più parallelo a quello del Polo Celeste: la terra dei Giganti della Quarta Razza era diventata una regione di desolazione e di morte. Il libro afferma che i Magi i cui antenati conversavano con gli Spiriti celesti (Yazata), avevano dovuto emigrare nel Sogdiana.
 
A causa della precessione degli equinozi, il polo Nord magnetico descrive in 25.920 anni un cerchio attorno alla costellazione del Dragone.
 
La caduta di Troia[15] e la caduta di Tebe, segnano la fine di un’Età del mondo quella del Bronzo, il cui inizio deve necessariamente risalire alla fondazione di Troia. Troia venne distrutta due volte, due furono secondo la Dottrina Segreta, le ultime distruzioni [16]del continente Atlantide, una probabilmente 80.000 anni fa, l’altra 12.000 anni fa.
 
Il poeta Nonno di Panopoli nel libro “Le Dionisiache I (Canti 1-12)” c’informa che  Dardano giunse a Troia dopo il Terzo Diluvio e poiché avviene una distruzione per ogni Generazione o Razza Radice, ne segue che Dardano è il progenitore della Quarta Razza Radice o Generazione. Dopo i tre Diluvi, una quarta distruzione o Diluvio distrugge il Cosmos di Ilio.
 
È a G.R.S. Mead che dobbiamo molte delle informazioni filtrate dai tempi dell’antico Egitto nel suo Thrice Greatest Hermes basandosi su Manetone scrive che le due successioni si sacerdoti e profeti erano separate da un’inondazione e che la civiltà arcaica dell’Egitto era anteriore all’inondazione che probabilmente spazzò via il paese quando le Isole Atlantiche sprofondarono. Era l’epoca degli Dèi e dei Re Divini e Semidèi. Anche il periodo dell’Iliade è si riferisce all’epoca degli Dèi, infatti una guerra decisa dagli Dèi e combattuta dai loro figli, gli Eroi. Ad esempio Omero narra che Diomede dopo aver combattuto contro Enea figlio di Afrodite, si scontrò quindi con Ares intervenuto in suo favore e lo ferì al ventre: il dio dovette abbandonare il campo di battaglia e rifugiarsi sull’Olimpo dove verrà curato. Secondo il racconto omerico, Diomede non era un semplice uomo, egli ricevette da Atena l’immortalità, che non aveva dato a suo padre. «La dea dai capelli d'oro e dagli occhi grigi fece di Diomede un dio immortale» (Pindaro, Nemea X). Questi racconti non hanno nulla a che vedere con la guerra dei Greci contro i Troiani dell’Asia Minore.
 
La seconda distruzione di Troia avvenne per opera di Ercole che secondo Erodoto è uno dei dodici Dèi Egizi. Dell’Ercole dei Greci, in nessuna parte dell’Egitto potrei ottenere conoscenza alcuna … in nome non venne mai preso dall’Egitto alla Grecia … Ercole … come essi (i sacerdoti) affermano, è uno dei dodici[17] (Dèi) che furono riprodotti dai precedenti otto Dèi 17.000 anni prima di dell’anno di Amasis[18] .

[1] A. Morretta, il Quinto Millennio, p.121, Antares-Moizzi Editore.
[2] Erodoto, Thalia, LXXVII.
[3] H. P. Blavatsky, Antropogenesi, V, p.163-165.
[4] Studi su Erodoro di Eraclea Pontica - Dott.ssa Florinda Guadagno - Università degli Studi di Napoli Federico II.
[5] Platone, Fedro, 79.
[6] Platone, Leggi, I, 8.
[7] Platone fu Iniziato da Cratilo, discepolo del filosofo Eraclito, si recò in Egitto dove fu Iniziato ai Misteri Egizi, si recò a Taranto dove frequentò Archita il capo dei Pitagorici. Per quanto riguarda l’estrema Epopteia, la suprema Iniziazione vedi  Fedro, 64.
[8] Il celibato che dovrebbe essere praticato dai sacerdoti cattolici, non proviene dalla tradizione ebraica dove invece era visto come un obbrobrio, ma proviene invece dalla tradizione misterica pagana da cui il Cristianesimo ha ereditato la maggior parte dei suoi riti e paramenti sacerdotali.
[9] Se il Leone è nella voragine, l’Acquario, opposto al Leone è in alto nel cielo.
[10] H.P. Blavatsky, Antropogenesi, VI, p. 404 - 405.
[11] Il Pralaya è un periodo di inattività, paragonabile alla notte della creazione, dove tutto resta allo stato potenziale, pronto al risveglio ad iniziare un nuovo ciclo.
[12] H.P.B. Dottrina Segreta Antropogenesi.
[13] Lo Shloka si riferisce alla grande distruzione di Atlantide.
[14] Lo Shloka si riferisce alla Quinta Razza: “qualche giallo, qualche bruno … “sono le suddivisioni della prima Sottorazza della quinta Generazione o Razza Madre.
[15] Il geologo Robert M. Scoch nel suo recente libro La voce delle pietre interpreta il conflitto troiano in chiave geologica, la distruzione dovuta a forze non umane rappresentate dagli dei e semidei dell’Olimpo.
[16] La prima la più grande avvenne 850.000 anni fa.
[17] Ercole è assimilato a Shu l’energia solare.
[18] Erodoto, II, 145.
LA PRIMA ROVINA DI TROIA
 
Poiché Laomedonte fu il quinto re di dei Dardanidi e ogni Re rappresenta una sottorazza o una famiglia razziale, siamo giunti alla quinta sottorazza quella dei Dardanidi. Il re Sposò Strimo e fu padre di cinque maschi tra cui Podarce (Priamo) e tre femmine tra cui Esione.
 
Come sempre nei racconti mitici si sovrappongono più livelli di interpretazione, che in questo studio sono raggruppati in tre livelli, che per quanto attiene al mito della fondazione di Troia sono interpretabili come:
 
  • La creazione di un continente che emerge dell’oceano, in questo caso le mura di Troia edificate da Poseidone rappresentano il confine fra le acque dell’oceano e la terra ferma.
  • La creazione di una nazione vera e propria: i discendenti di Dardano rappresentano una sottorazza[1] della Quarta Razza o Generazione umana.
  • La fondazione di un culto misterico, nella persona di Laomedonte, continuatore della Tradizione di Dardano. In questo caso, la fondazione di Troia appare come l’instaurazione di un ramo dei Misteri, la religione misterica dei Kabiri, affiliato alla Tradizione Madre, insegnata da Apollo, Dio dei Misteri, che nel mito troiano è rappresentato come il Buon Pastore[2].
     
Questo libro tratta principalmente il primo e secondo aspetto, quello concernente un piccolo cosmos e la nascita di una nazione abitata da un particolare gruppo razziale appartenente alla Quarta Generazione, quella degli Eroi.
 
Apollodoro e Diodoro Siculo, che commentano i canti di Omero, scrivono che Poseidone e Apollo si offrirono di aiutare il re Laomedonte a costruire le mura della città di Pergamos o Troia e che, una volta terminato il lavoro il re si rifiutò di consegnare quanto pattuito ai due Dèi e così Apollo inviò una pestilenza e Poseidone un mostro marino che, trasportato da un’alluvione, trascinava la gente della pianura via con sé. Ovidio scrive nelle Metaforfosi che l’ira di Poseidone trasformò le terre dell’intera Troade in lagune grandi come il mare lasciando i contadini senza alcuna speranza di poterle coltivare.
 
La rovina di Troia fu dovuta essenzialmente a uno spergiuro di Laomedonte, che promise e poi negò, ai due divini muratori, Apollo e Poseidone i Due Cavalli Divini donati da Zeus a Troo. Questa coppia di Cavalli, rappresenta i gemelli Dioscuri la polarità elettromagnetica, la forza creatrice e distruttrice nello stesso tempo, il misterioso Fuoco Elettrico. In India troviamo i Gemelli Asvin, figli del Sole Surya, gli Dèi dalla testa di cavallo.
 
Questi cavalli immortali furono donati da Zeus a Troo in cambio del rapimento di Ganimede. Secondo Euripide[3] e Marco Tullio Cicerone, Ganimede non era figlio di Troo, nonno di Laomedonte, ma suo figlio. Poseidone, irritato, sbattendo il suo tridente inviò un Drago marino e le acque (dell’oceano) contro le mura di Troia da lui costruite, provocando un maremoto, distruggendo le messi e uccidendo gli uomini. Apollo, salì sul colle che sovrastava la città e col suo arco d’argento fece piovere su Troia delle frecce che scatenarono una pestilenza che decimò i Troiani.
 
Interrogato l’oracolo su come placare la furia dei due dèi, ordinò che al Drago marino inviato da Poseidone fossero date in pasto alcune vergini troiane incatenate a una roccia di fronte al mare e così fu fatto.
 
La lettura della vicenda legata ai culti misterici è stimolante: gli Dèi si presentano a Laomedonte come muratori (costruttori, fondatori), per aiutarlo a costruire le mura della città di Troia. Quando toccò ad Esione, figlia del re, sacrificarsi al drago marino, Laomedonte si rifiutò di perdere la figlia e ripromise i due cavalli divini a chi avesse salvato Esione che stava per essere divorata dal mostro marino. Giunsero a Troia Eracle e Telamone che si offrirono di salvare la giovane.
 
Qui alle vicende del macrocosmo si sovrappongono le vicende dell’Eroe che percorre il sentiero iniziatico. Eracle affrontò la terribile creatura, ma fu ingoiato insieme a lei. Rimase nel ventre del mostro per tre giorni e rivide la luce solo dopo avergli tagliato la pancia, salvando se stesso e la principessa. Il pensiero va subito a Giona nel ventre della balena, a Pinocchio nel pescecane, ai tre giorni della morte di Lazzaro, ed a quelli di Gesù nel suo sepolcro. La scomparsa di Eracle nel ventre del Drago corrisponde all’ingresso nel Tempio interiore. Ecco perché le porte dei templi sono fiancheggiate da colossali cariatidi: draghi, leoni, annientatori di demoni con la spada sguainata, ecc. Sono i guardiani della soglia incaricati di vietare l’accesso a coloro che non sono in grado di affrontare l’infinito silenzio che è all’interno. In questo senso l’interpretazione è stata ripresa dalla Massoneria. Anche l’Eroe Perseo come Eracle è ricordato soprattutto per aver salvato Andromeda incatenata (come Esione) a uno scoglio, poi diventata sua sposa, da un mostro marino. Quando uscì dal ventre del mostro non aveva più capelli, come il cranio liscio di un neonato, un nuovo nato un Iniziato.
 
Laomedonte per la seconda volta si rifiutò di dare i cavalli divini in premio. Eracle si allontanò da Ilio e dopo un certo tempo ritornò con 18 navi da 50 remi e un esercito per punire Laomedonte. Perché 18 navi, cosa nasconde questo numero? Il numero 18 è la quarta parte di un numero importante per il conteggio del tempo, 72 sono gli anni impiegati dal sole equinoziale per completare uno spostamento precessionale di un grado. La Cabala insegna che ci sono 72 Geni (o Angeli) divisi nei Quattro Elementi: 18 trasmettono i loro poteri dall’elemento Fuoco, 18 dall’elemento Aria, 18 dall’elemento Terra e 18 dall’elemento Acqua. Nell’antica Roma, al ricorrere del 18 di ogni mese, nessuna azione, sia pubblica sia privata, era possibile compiere a meno che non fosse strettamente necessaria. Il numero 18 rappresenta la fine di uno dei Quattro Tempi. Le navi sono a 50 remi come l’Arca di Giasone. Entrambi i numeri solo collegati alla misura del tempo.
 
Fu aperta da Ercole una breccia nelle mura sul lato occidentale, probabilmente dove fu poi eretta la porta di Scee e deposte le ceneri di Laomedonte. L’Eroe distrusse Troia, uccise con le frecce il re e i suoi figli eccetto uno di nome Podarce “dai piedi rapidi” che in seguito fu chiamato Priamo. Gli antichi identificavano la freccia col fulmine: si pensi a Zeus folgoratore. Porfirio nato in Fenicia, ci assicura che al Sole fu dato il nome di Ercole. Ercole è in relazione con il Sole, il serbatoio fisico di forze elettromagnetiche, e generatore del tempo; le frecce letali di Ercole rappresentano il potere di porre fine a un ciclo temporale. Questa fu la seconda distruzione di Troia.
 
Esione ottenne la salvezza del fratello minore non solo supplicando, ma anche facendo dono ad Eracle di un velo ricamato in oro. Elena, Fedra, Penelope, sono tradizionalmente raffigurati con un velo che ricopre testa e spalle. Il velo indica la completa sottomissione al divino: lo testimonia la cerimonia del ver sacrum in cui ragazzi e ragazze usavano coprirsi il capo, e l’abbigliamento tipico delle Vestali nell’antica Roma. Come la morte cala sul capo come una “nube”, così anche la donna per sposarsi, nubere, per morire come vergine e rinascere come donna doveva velarsi il capo. Sciogliere il velo equivaleva ad aprire concedersi, essere conoscibile ed espugnabile. Plutarco, nel “De Iside et Osiride”, riferisce che sotto la statua di Iside velata a Menfi stava la seguente iscrizione: “Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo.” Sollevare il velo qui significa conoscere la verità dell’intero universo, ma anche ri-velarla. Il velo aveva una funzione simbolica nei rituali misterici di iniziazione. C’erano veli per coprire e veli per rivelare i misteri. I Mystai (gli iniziandi) dovevano coprirsi gli occhi in alcuni momenti del rito e chiudere la bocca. I Misteri Eleusini si concludevano con una visione contemplata in silenzio, con uno svelamento da parte dello Ierofante (colui che mostra, che svela), della manifestazione simbolica della dea Demetra nella spiga di grano.
 
Il velo aveva anche un altro significato, in quanto il muro della città aveva un nome speciale ierón krédemnon[4], sacro velo, un sigillo magico, una protezione circolare contro le forze ostili esterne. Un magico cerchio che avvolgeva la città e che doveva essere sciolto, violato o neutralizzato per rendere possibile l’espugnazione della città. La cessione di Esione che rappresenta la città del suo velo a Ercole indica la perdita della protezione e la possibile espugnazione delle non più invincibili mura della città. Ercole in questo racconto lasciò in vita solo Podarce che in seguito fu chiamato Priamo, e con lui iniziò un nuovo ciclo troiano, cioè un nuovo ceppo razziale, il sesto con la distruzione definitiva di Troia, il settimo si concluse con la fuga dei Troiani al seguito di Enea, per poi giungere quella terra che divenne poi l’Italia.

[1] Secondo la Tradizione, ogni generazione o Razza Radice, si divide in sette sottorazze che a loro volta si dividono in sette gruppi razziali.
[2] Eleusi era chiamata l’ovile, mentre il gran Ierofante, l’Iniziatore, era chiamato il Buon Pastore.
[3] Euripide, Le Troiane, 822.
[4] Krédemnon deriverebbe da kára o testa, e dein legare, e indicava il velo portato dalle donne  e anche il sigillo delle giare del vino.
ERCOLE, IL MAGNETE
 
Eracle o Ercole fu il primo distruttore di Troia: egli scaricò la sua ira sulla città perché Laomedonte non gli diede i due cavalli alati promessi per l’aiuto ricevuto. Egli uccise il re e i suoi figli, cioè distrusse i popoli che essi rappresentavano, lasciando in vita solo Podarce che in seguito fu chiamato Priamo, un nuovo ceppo razziale. L’Ercole di questo racconto mitico non poteva essere un uomo. La figura di Ercole rappresenta qualcosa che va oltre ad un personaggio storico oppure secondo altri inventato dalla fantasia. I miti legati a Eracle sono una miniera preziosa d’informazioni, ma in ogni caso è bene sapere che la chiave d’interpretazione per comprendere il linguaggio misterico va girata sette volte, perciò il personaggio mitico rappresenta:
 
1.      Il Potere Magnetico Cosmico, lo Spirito della Luce o Luce del Logos.
2.      La Forza Duale, il Dipolo Magnetico Cosmico.
3.      Il Sole serbatoio fisico di forze elettromagnetiche, e generatore del tempo.
4.      Una divinità, uno dei Dodici Dei Egizi, secondo quanto ci riferisce Erodoto.
5.      Il potere psichico nella personalità, l’anima, il sole incarnato.
6.      Un Kabiro, un Istruttore antidiluviano[1] dell’umanità.
7.      L’Eroe, l’Iniziato che ripete le gesta del modello celeste in mezzo agli uomini.
             
Il secondo aspetto del mito, quello in relazione con il Dipolo Magnetico cosmico ci viene svelato dall’astronomia, che ci informa che il nostro sistema solare si dirige verso la costellazione di Ercole, il centro di attrazione magnetica del nostro universo. I sacerdoti egizi non solo conoscevano il centro di attrazione universale chiamato Ercole da Diodoro Siculo, e Osiride da Plutarco – ma aggiungevano che era seguito dal figlio Horos il quale lo accompagnò nelle vicende da lui intraprese. Il mito egizio, narra che Osiride, la Luce, il Sole, è ucciso dal fratello avversario, il tenebroso Seth-Tifone, scatenando così la reazione di Horos che l’inseguì per combatterlo. Horos, era associato al magnete il cui nome era l’osso di Horos, mentre Seth, l’Avversario era associato al ferro, il cui nome era l’osso di Tifone. A livello cosmico, i 14 pezzi di Osiride che sulla Terra vennero sparsi per l’Egitto, in cielo divennero dei Soli, delle stelle.
 
Il terzo aspetto del mito riguarda il Sole. Erodoto[2], scrive che quando egli chiese dove fosse la patria di Ercole, gli Egiziani gli indicarono la  Fenicia. Porfirio nato in Fenicia, ci assicura che al Sole fu dato il nome di Ercole. Il poeta Nonno designa il Dio-Sole adorato dai Tiri (Fenici) col nome di Ercole Astrochyton, cioè Ercole dal manto di stelle. L’autore degli Inni Orfici[3], nell’Inno XII descrive Ercole come il Sole, “Padre di tutte le cose, nato da se stesso, Dio generatore del Tempo ... valoroso Titano”. Ercole, il Sole è anche la Luce Magnetica, il serbatoio delle Forze elettromagnetiche. La parola magnetismo trae origine da magh, magnus, grande; magnes è il Fuoco Vivente, lo Spirito di Luce. Il magnete era chiamato nell’antichità pietra[4] di magnesia, perché si dice che i Magi o Maghi, furono i primi a scoprire le sue meravigliose proprietà. Platone, per bocca di Socrate dice: “Euripide, la chiama magnete (pietra di magnesia), ma la gente comune la chiama Eraclea (pietra di Ercole)”[5].
 
Il quarto aspetto della figura mitica di Ercole ci viene rivelato da Erodoto, la divinità, chiamata Som o Chom, che secondo quanto dicono i sacerdoti Egizi fece da modello al suo omonimo greco. L’Ercole dei Greci secondo quanto ci riferisce Erodoto è uno dei dodici Dei Egizi[6].
 
Il sesto aspetto il Kabiro il progenitore, riguarda particolarmente questa ricerca, poiché i racconti legati ai viaggi e alle avventure dell’Eroe, narrano in modo velato le vicende di antichi popoli accompagnati e istruiti da Istruttori, guide che in seguito furono deificate come per esempio nell’aspetto di Ercole Kabiro.

[1] Osiride, il Sole, è descritto da Plutarco in De Iside, come un Re, un Istruttore, un Legislatore ecc.
[2] Erodoto, II, 42.
[3] Orfeo, come Pitagora, Buddha, Gesù, Ammonio Sacca ecc., non scrisse mai nulla: l’Insegnamento è tramandato solo oralmente e in segreto.
[4] Di pietra era fatto il martello elettromagnetico di Thor.
[5] Platone, Ione, 533d.
[6] Erodoto cita 12 Dei Egizi, ma i commentatori dicono che erano una sua invenzione, in quanto gli Dei erano otto o nove, cioè l’Enneade. Questi 12 Dei erano in relazione con l’anno solare egizio di 12 mesi più cinque giorni intercalari. I sacerdoti di Eliopoli dicevano che i 12 Dei greci erano una derivazione di quelli egizi.
PRIAMO E LA SECONDA DISTRUZIONE DI TROIA
 
I poeti narrano, che l’ultimo figlio di Laomedonte, Podarce fu risparmiato e fu condotto in Grecia con la sorella Esione, fino a quando non fu riscattata la colpa del padre, dopo di che Podarce sotto il nome di Priamo che significa riscattato. Priamo ricostruì Troia e ne divenne il re potente e temuto: aveva esteso il suo potere a tutta la regione e alle isole della costa asiatica. Egli sposò dapprima Arisbe, la figlia di Merope il veggente, la quale gli diede un figlio, chiamato Esaco, che dal nonno Merope imparò l’arte di interpretare i sogni. Priamo la ripudiò lasciandola a Irteo, per sposare in seconde nozze Ecuba, o Ecabe, nome che vela Ecate, generò al marito 19 dei suoi 50 figli, gli altri figli li ebbe da concubine, e tra i figli illegittimi vi furono 12 figlie. Il primo figlio di Ecuba, fu Ettore, il protettore della città, il cui destino è strettamente legato alle magiche mura di Troia; il secondogenito fu Paride, colui che apparentemente scatenò la guerra degli Achei contro i Troiani. Il numero totale dei figli è in relazione con il grande ciclo, caratterizzato dal numero cinquanta, che è legato a Ercole e al mito tebano delle figlie di Thespio. Priamo regnò 52 anni, il numero delle settimane che compongono l’anno solare, i figli legittimi dell’anno solare, sono 19, il numero del ciclo luni-solare o metonico[1]. Le 12 figlie rappresentano i mesi dell’anno, le Ore diurne del Ciclo di manifestazione di un popolo, di un ceppo razziale, di un pianeta.
 
Dopo la seconda distruzione di quel piccolo cosmos che va sotto il nome di Ilio per mano di Ercole, un figlio di Zeus, in altre parole per effetto della Legge, del Fato ineluttabile che fa nascere e morire uomini, continenti e pianeti, Priamo appare come un nuovo Ilio, destinato a rifondare un piccolo cosmos. Ciò che nasce deve morire, anche il cosmos popolato da Priamo è sottoposto all’inesorabile legge del ciclo, i numeri parlano chiaro: la durata è pari a 52 anni della vita del Re. Per quale cifra debbano essere moltiplicati gli anni di Priamo è oggetto di conoscenza misterica sui segreti del tempo, da parte nostra si possono fare solo supposizioni. È stato già spiegato che Omero, mise in versi nell’Iliade e nell’Odissea, le vicende degli Eroi di Troia, appartenenti alla Quarta Generazione, attingendo a Tradizioni più antiche. Su antichissime vicende fu inserita la storia di un conflitto tra gli Achei, un popolo della giovane Grecia, tra Troiani, un popolo appartenente al vicino medio-oriente.
 
  
 
ELENA E PARIDE
 
Secondo il dettagliato compendio che cita i versi della motivazione, il poeta dei Kypria (Ciprii) alludeva esplicitamente alla possibilità di un diluvio – evidentemente un secondo diluvio, perché il primo, i cui superstiti erano Deucalione e Pirra[2]. È narrato che il Dio Biasimo, Momos[3], si oppose all’idea di sterminare l’umanità con i fulmini e con l’acqua, consigliando un duplice matrimonio, quello di Zeus con Nemesi la figlia della Notte, e Tetide una Dea delle Acque con il mortale Peleo, destinati a provocare la discordia delle dee e mettendo al mondo Elena e Achille. La Dea Eris, la Discordia, incollerita per non essere stata invitata alle duplici nozze, gettò fra gli Dei una mela d’oro che si diceva che proveniva dal Giardino delle Esperidi. Questa mela, osserva Karóly Kerényi, sarebbe diventata quasi altrettanto famosa della mela del primo peccato secondo il racconto della Genesi. La mela era indirizzata alla più bella con una parola incisa oppure detta soltanto o neppure espressa. Paride fu indicato come giudice dallo stesso re degli dei: Ermes avrebbe portato a Paride la mela insieme alle tre dee.
 
Le tre dee più importanti, Era, Atena e Afrodite si lanciarono sulla mela per impadronirsi del dono. La disputa, a questo punto, diventa furiosa e implacabile, secondo i piani del Dio Biasimo, doveva portare a una distruzione del genere umano. Ciascuna delle tre dee desidera per sé la mela che le altre due si contendono. Le tre Dee cercarono di influenzare con promesse la scelta di Paride. Atena offrì al giovane la vittoria, l’eroismo; Era offrì il dominio sull’Asia e sull’Europa; Afrodite offrì la bellissima Elena. Paride scelse la sorella dei gemelli nati dall’uovo. A Paride fu offerta la gloria, la ricchezza e il potere sul mondo, ma egli rifiutò tutto apparentemente per appagare un desiderio sessuale.
 
Un primo livello di interpretazione riguarda le vicende di antiche generazioni di uomini che dovevano giungere al termine. La disputa fu decisa da un mortale con un giudizio che avrebbe portato alla guerra di Troia e alla fine di un’epoca.
 
Un secondo livello di interpretazione riguarda le vicende interiori dell’Eroe che conosce Elena[4] solo in seguito all’episodio della mela d’oro. Elena al pari di Polluce, uno dei gemelli nati dall’uovo, rappresenta l’aspetto luminoso o divino nella manifestazione, essa è il simbolo dell’anima caduta nella materia e da cui deve essere liberata.
 
Lo scopo di questo studio è principalmente volto al primo livello d’interpretazione, accennando di tanto in tanto anche i significati del secondo livello interpretativo. Joseph Campbell in Mitologia Occidentale mostra una raffigurazione etrusca del giudizio di Paride su un vaso di ceramica del VI sec a.C. (Louvre) dove è ribaltata la comune concezione della voluttuosità del giudizio sulla bellezza delle tre dee: “vediamo non un giovane nella solita posa languida di un perfetto damerino, ma un Paride imberbe allarmato, che il dio Hermes – guida delle anime nell’aldilà – afferra per un polso per costringerlo a svolgere il suo compito”.[5] Hermes è una divinità Kabirica, Kadmilos o Kasmilos cioè Ermete, non l’itifallico ricordato da Erodoto, ma “quello della leggenda sacra”, che era spiegata solo durante i Misteri di Samotracia.

 
Figura 1. Il giudizio di Paride[6]
   
La figura è inequivocabile, Hermes obbliga al giudizio Paride, che a sua volta appare spaventato dalle conseguenze del suo gesto. Paride fu incaricato o costretto di stabilire a chi dovesse essere assegnata la mela d’oro.
 
Le tre dee erano splendenti, rappresentavano tre forme dell’esistenza divina. Nell’ordine questi erano i doni di Atena, Afrodite ed Era. Paride preferì il dono di Afrodite, il possesso di Elena[7] figlia di Zeus e rifiutò la vittoria e la potenza delle armi, dono di Atena, e il dominio sull’Asia e sull’Europa, dono di Era. Il Melo è l’albero sacro a Afrodite Venere, e Gli amorini, si dice, nacquero sotto ad un melo, ma il melo, occultamente, è l'Albero della Vita e della Conoscenza; mangiarne il frutto significa lasciare lo stato di innocenza, o di incoscienza, per prendere coscienza di sé, assumere la capacità e la responsabilità di scegliere fra il bene ed il male, diventare arbitri del proprio destino.
 
Paride s’innamora di Elena senza averla mai vista. Il gesto è stato sempre interpretato come voluttuoso, perché è la dea dell’Amore che offre a Paride, un suo alter ego, la bellezza femminile incarnata in Elena. Jung interpreta la figura di Elena come una figura dell’archetipo dell’Anima. La personificazione della Sapienza in una figura femminile è tipica delle organizzazioni misteriche, non per nulla il significato del nome Elena è splendore, vigore del Sole, fiaccola. Il rapimento e lo spostamento a Troia della bella Elena, l’infedele moglie di Menelao è un’allegoria Misterica su chi deve possedere la conoscenza segreta.
 
Apollodoro[8] narra che per nove giorni Paride fu ospite a Sparta di Menelao, al decimo giorno fuggì con Elena. La guerra di Troia sotto l’influenza di Ares il dio della guerra, andò avanti senza vincitori e vinti e si terminò al decimo anno, che nel linguaggio misterico stanno a indicare un ciclo completo.
 
Anche la nascita e la morte di Paride sono avvolte dal mito. Apollodoro[9] narra che quando Paride nacque, Priamo, lo affidò a un servo che lo abbandonasse sul monte Ida[10], dove poi in seguito lo andarono a cercare le tre dee per la disputa della mela d’oro. Il monte Ida era il regno della sovrana degli animali selvatici Afrodite, che amava l’orsa. Infatti, il bimbo fu nutrito da un’orsa per cinque giorni. Fu allevato da un pastore che lo nominò Paride e in seguito gli diede il soprannome di Alessandro, perché respingeva gli assalti dei banditi, perché era un guerriero. Il mito greco afferma che anche Atalanta fu anch’essa abbandonata su un monte e allevata da un’orsa inviata da Artemide[11]. La giovane crebbe come una vergine guerriera, e come una temibile arciera come la sua protettrice, Artemide. Chiunque voleva unirsi a lei in matrimonio doveva riuscire a batterla in velocità, pena la morte per mezzo delle frecce di Atalanta. Un pretendente riuscì a sposarla con l’inganno perché durante la corsa, lasciò cadere per terra tre mele d’oro donate da Afrodite[12]. È inevitabile collegare le mele d’oro di Afrodite di Afrodite con le mele d’oro del giudizio di Paride. Il re mitico saggio e guerriero della tradizione occidentale è Artù, il cui nome deriva da quello dell’orso arth, e più precisamente è identico a quello della stella Arcturus. In Scozia il nome di famiglia Mac-Arth, significa figlio dell’orso e indica l’appartenenza a una casta guerriera[13]. Artù è in relazione come Paride con il numero cinque, perché era figlio di Pendragon, il quinto dragone, un dragone custodiva l’albero delle mele d’oro. Infine occorre ricordare che l’Orsa Maggiore e le Pleiadi erano raffigurate sullo scudo di Achille, il distruttore di Troia.
 
Paride, in seguito, conobbe sul monte Ida la ninfa Enone, la ninfa delle fonti, istruita nell’arte della medicina, che divenne sua moglie. Dopo la caduta di Troia, Paride fu colpito a morte da Filottete[14] con una delle frecce avvelenate di Ercole. Gli antichi identificavano la freccia col fulmine: si pensi a Zeus folgoratore. Le frecce letali di Ercole rappresentano il potere di porre fine a un ciclo temporale, nel nostro caso il ciclo temporale di Priamo, legato alle vicende degli Eroi che combatterono sotto le mura di Troia. Porfirio nato in Fenicia, ci assicura che al Sole fu dato il nome di Ercole. Il poeta Nonno designa il Dio-Sole adorato dai Tiri (Fenici) col nome di Ercole Astrochyton, cioè Ercole dal manto di stelle. L’autore degli Inni Orfici[15], nell’Inno XII descrive Ercole come il Sole, Padre di tutte le cose, nato da se stesso, Dio generatore del Tempo … valoroso Titano. Ercole è in relazione con il Sole, il serbatoio fisico di forze elettromagnetiche, e generatore del tempo.
 
Paride ferito a morte si fece portare sul monte Ida, ma la ninfa Enone non lo guarì, su seppellito sul monte dove incominciò tutto col il famoso giudizio.

[1] Apollo, ritorna ogni 19 anni nel paese degli Iperborei; il Sole impiega 19 anni per ricongiungersi con la Luna.
[2] Karóly Kerényi, Miti e Misteri, la nascita di Helena, p. 38, 39. Universale Scientifica Boringhieri.
[3] Esiodo, annovera Momos tra i figli della Madre Notte, i fratelli di Nemesi.
[4] Elena rappresenta la Gnosi, la Sophia degli Gnostici. A tale riguardo nello Gnosticismo è narrata la vicenda di Simone e della bella Elena che si diceva essere la centesima incarnazione dell’Elena di Troia che agli inizi degli Eoni era Sophia. Pertanto il rapimento della bella Elena, l’infedele moglie di Menelao è un’allegoria su chi deve possedere la Scienza Segreta. I Padri della Chiesa, in contrasto dottrinale con gli Gnostici, hanno degradato la bella Elena compagna di Simone al rango di una prostituta, ciò che non hanno fatto i Greci nel poema omerico, dove era solo una moglie infedele.
[5] Joseph  Campbell, Mitologia Occidentale, Oscar Mondadori, pag. 187.
[6] Vaso etrusco, VI secolo a.C., Museo del Louvre.
[7] La mela rappresenta la conoscenza segreta, la Gnosi, la Sophia degli Gnostici. Al tempo degli Gnostici, si narra di una storia fra Simone lo Gnostico e la bella Elena, che si diceva essere la centesima incarnazione dell’Elena di Troia che agli inizi degli Eoni era Sophia.
[8] Biblioteca, Epitome, 16, 3.
[9] Apollodoro, Biblioteca, Libro III, 5.
[10] Apollodoro scrive che quando Ecuba fu sul punto di dare alla luce il secondo figlio, sognò di partorire un tizzone acceso e di portarlo in giro per la città sino ad incendiarla.
[11] Le orse erano sacre ad Artemide.
[12] Apollodoro, Biblioteca, Libro III, 2.
[13] R. Guénon, Simboli della Scienza Sacra, Il Cinghiale e l’Orsa.
[14] Un altro dei pretendenti alla mano di Elena.
[15] Orfeo, come Pitagora, Buddha, Gesù, Ammonio Sacca ecc., non scrissero mai nulla, l’Insegnamento doveva essere tramandato solo oralmente ed in segreto.
ETTORE IL PROTETTORE DI TROIA
 
Omero nell’Iliade non descrive la caduta di Troia, che descrive Virgilio nell’Eneide, ma dopo la morte di Ettore lascia intendere che la sua fine fosse ormai ineluttabile e imminente. Il destino di Troia si compie con la Morte di Ettore, il protettore, perché come narrava il poeta: “Ettore salvava Ilio lui solo [1]. Il poeta allude che Ettore era particolarmente importante per la difesa di Troia. Seneca rammenta che Ettore e Troia soccombono lo stesso giorno e praticamente omologa l’Eroe alle magiche mura della città. Euripide chiama Ettore políokon krátos (Rhes. 821), la forza di sostegno della città, aggettivo riservato solo all’eroe troiano e alle divinità protettrici della città.
 
L’Eroe, era noto come domatore di cavalli, un imbrigliatore delle forze selvagge della natura, solo con la sua morte, o con la sua scomparsa, la potenza del cavallo distruttore poteva irrompere all’interno delle mura portando distruzione e morte.
 
Achille con l’aiuto di Atena, uccise Ettore, e ogni mattina per dodici giorni[2], al sorgere dell’alba legava al suo carro il corpo di Ettore e per tre volte gli faceva fare il giro delle mura. Per dodici giorni (dodici erano i guerrieri Traci che furono uccisi presso il fiume Xanto) fu ripetuto il tragico rituale, affinché si compisse il destino di Troia[3].
 
L’antenato di Ettore, Ilio, fondò la città tracciando un sulcus, a forma di cerchio, probabilmente in senso antiorario, quello della precessione equinoziale. Achille traccia anch’egli un solco, dove al posto dell’aratro vi è il corpo di Ettore. Servio[4] affermava che come una città veniva fondata servendosi dell’aratro, così doveva ritualmente essere distrutta. Se le mura magiche dovevano essere distrutte, occorreva ripercorrere il cerchio in senso inverso a quello della fondazione, in modo da poter sciogliere il sacro sigillo. Si presume che il carro di Achille corresse in senso orario, in quanto egli usciva ogni mattina al sorgere del sole.
 
L’uccisione di Ettore ebbe come controparte, la morte di Achille, ucciso da una freccia scoccata da Paride che guidato da Apollo riuscì a centrare il tallone vulnerabile di Achille. L’imminente caduta di Troia ebbe una battuta di arresto con la simmetrica  uccisione di Achille da parte di Paride, obbligando gli Achei a ricorrere all’inganno del Cavallo di legno per infrangere le difese della città.
 
  
 
ACHILLE LA  POTENZA DELL’OCEANO - IL DILUVIO MARINO
 
Dopo Elena, l’altro personaggio fatale, per irruenza, che secondo i Kypria era destinato a causare la rovina del genere umano era Achille, figlio di Tetide, Dea delle Acque[5] e dell’umano Peleo. La Dea partorì il figlio in Tessaglia e poi ritornò nei fondi marini o secondo un’altra versione nelle profondità del mare. Il nome Achille è strettamente collegato con gli Dei delle Acque[6] come Acheloo e Achele. Il distruttore di Troia appare come un figlio delle profondità delle acque o dell’oceano; la sua furia simboleggia l’azione dell’oceano contro le barriere (mura) che proteggevano Troia o il cosmos che essa rappresentava. Troia è come Tebe, una città-continente che viene distrutta dalla furia dell’oceano, che appare come uno strumento del fato o dell’inflessibile Legge che crea e distrugge i mondi, la legge del divenire. Il nome di Peleo è in relazione con il monte Pelio sul quale viveva, oppure con il terreno argilloso di cui era fatto, pelos. Al nome di Peleo è pure associato il popolo dei Mirmidoni, dei veri e propri uomini formiche, uomini imperfetti, provenienti dalla terra, ad allusione dell’argilla materiale con cui è stata impastata la forma del primo uomo. Il nome di Peleo, di Pelio, richiama il terreno argilloso da cui spuntarono fuori gli uomini-formiche. Eschilo, per bocca di Prometeo, racconta al coro come erano gli uomini dei primordi:
 
Udite, invece, le infelicità regnanti fra gli umani, come un tempo erano inetti prima che chiarezza di spirito e dominio della mente io loro dessi ... sotto terra abitavano come formiche rapide nel più profondo degli antri ove il sole non giunge[7].
 
I racconti mitologici, affermano che gli uomini-formiche arrivarono in Tessaglia capeggiati da Peleo, altri miti, narrano che i Mirmidoni, abbiano accompagnato Achille a Troia. Comunque sia le vicende legate a Troia, appaiono alla lettura di queste antiche storie, molto remote. Per festeggiare il matrimonio fra la  Dea delle Acque e il capo dei Mirmidoni, Poseidone regalò a Peleo due cavalli alati, Balio il cavallo pezzato e Xanthos, il sauro, che accompagnarono Achille a Troia. Omero descrive la caduta di Troia, come conseguenza dell’inganno escogitato da Ulisse: l’ingresso nella città di un cavallo di legno contenente trenta soldati. Due cavalli alati furono la causa della prima distruzione di Ilio, un cavallo di legno e due cavalli immortali furono la causa della definitiva caduta di Troia.
 
Il biondo Achille, proprio quale uno dei maggiori artefici dell’espugnazione di Troia, appare in più occasioni strettamente connesso con gli equini, tanto che, ad esempio, il proprio cavallo si chiamava anch’esso Xanthos: l’eroe, che portava sull’elmo una chioma bionda (Iliade XXII, 315-16), è poi frequentemente paragonato ad un cavallo[8].
 
Omero descrive Achille come un cavallo. “... balzando come un cavallo... così il rapido Achille muoveva piedi e ginocchio.”[9] I due cavalli di Achille, sono figli di Zefiro il dolce vento occidentale, e di una delle tre Arpie, Podarge[10], il cui nome significa colei che ha i piedi veloci, nome che stranamente ricorda quello di Priamo. Le tre Arpie erano considerate da Omero come personificazione dei venti di tempesta, come figlie di Elettra; rappresentano pure Atena primitiva nella sua triplice veste distruttrice. Il figlio della furia della tempesta era dunque Xanthos, un cavallo, che portava lo stesso nome del suo cavaliere, per velare che i due in realtà erano uno, la forza distruttrice personificata della natura. Xanthos è pure il nome del grande fiume dai gorghi profondi, che i Numi chiamano Xanto[11] e gli uomini Scamandro[12]. Questa forza distruttiva proviene dal grande fiume, e visivamente è rappresentata dai cavalloni marini.
 
Questi racconti mitici narrano l’opera distruttrice di un Diluvio di origine marina, in cui la potenza dei cavalloni marini è rappresentata dalla furia di cavalli terrestri. Fra le onde distruttrici più famose, gli oceanografi distinguono tre possibili cause:
 
Le grandi onde dell’oceano dette Tsunami, scatenate da eruzioni vulcaniche o da terremoti. Le onde giganti dovute dall’impatto sulla superficie delle acque di meteoriti o corpi celesti provenienti dallo spazio. La distruzione nel caso di comete sarebbe duplice: piogge di fuoco e onde gigantesche. Onde giganti dovute a un’improvvisa oscillazione o a una rotazione dell’asse della Terra.
 
Figura 1. Onde giganti, il potere distruttivo dei cavalloni
 

[1] Omero, Iliade, VI, 403.
[2] La distruzione, come la costruzione, avviene in 12 tempi parziali.
[3] Nel mito della fondazione di Roma, Romolo vide dodici corvi volare in alto nel cielo, per simboleggiare che con lui iniziava la prima ora del ciclo delle dodici ore concesse alla futura nazione.
[4] Servio, Ad. Aen. IV, 212.
[5] Tetide, era una delle cinquanta Nereidi, le figlie di Nereo, dio del mare con caratteristiche simili a Poseidone. In realtà Poseidone e Nereo sono uno.
[6] K. Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia, 2, p. 328.
[7] K. Kerényi, Miti e Misteri, Prometeo, p. 391.
[8] M. Baistrocchi, Arcana Urbis, p. 15.
[9] Omero, Iliade, XXII, 22-24.
[10] Le Arpie erano figlie di Elettra e venivano rappresentate come mostri col viso di donna e il corpo d’uccello, orribili alla vista e all’olfatto. Dal loro matrimonio con Zefiro, nacquero quattro cavalli alati, i due cavalli di Achille e i due cavalli dei Dioscuri.
[11] Xanto, Scamandro nome del fiume nei pressi di Troia.
[12] Omero, Iliade, XX, 73-74.
DUE IMMORTALI CAVALLI ALATI BALIO E XANTHOS
 
Due cavalli alati furono la prima causa della distruzione di Troia al tempo di Laomedonte, e successivamente al tempio di Priamo, i due cavalli immortali di Achille Balio e Xanthos, e un cavallo di legno, furono la causa della definitiva caduta di Troia. Omero nell’Iliade, descrive Achille come un cavallo: “... balzando come un cavallo... così il rapido Achille muoveva piedi e ginocchio.”[1] Il destino di Troia si compie con la Morte di Ettore, il protettore della città. L’Eroe, era noto come un domatore di cavalli, un imbrigliatore delle forze selvagge della natura, solo con la sua morte, o con la sua scomparsa, il cavallo distruttore (cavalloni marini e tsunami) poteva irrompere all’interno delle mura portando distruzione e morte.

 
Figura 1. Coppia di cavalli alati – terracotta etrusca
 
I due cavalli di Achille, il distruttore di Troia, sono figli di Zefiro il dolce vento occidentale e di una delle tre Arpie, Podarge[2], il cui nome significa colei che ha i piedi veloci, nome che stranamente ricorda quello di Podarce o Priamo. Le tre Arpie erano considerate da Omero[3] come personificazione dei venti di tempesta, come figlie di Elettra, tutte messe in relazione con l’Elettricità Cosmica, non per nulla i loro figli furono i cavalli alati dei Dioscuri[4], e i cavalli di Achille. Non è pertanto azzardato affermare che i Due Cavalli Alati personificassero le forze elettromagnetiche di cui il fulmine è l’effetto visibile.
 
È esistito a Roma un culto del cavallo, l’Equus October che non sono ricorda il rito dell’Asvamedha ario-bharatide ... Esso poggia sull’antico Quirinus sabino-laziale, assorbito poi dal dio Marte, la divinità guerriera che a Roma divenne il patrono dei cavalli … oggi i turisti ammirano, di fronte al palazzo del Quirinale e sul Campidoglio, i Dioscuri - gli Asvin - nell’atto di imbrigliare gli stupendi cavalli che sono i simboli… del proprio loro mito[5].

[1] Omero, Iliade, XXII, 22-24.
[2] Le Arpie erano figlie di Elettra e venivano rappresentate come mostri col viso di donna e il corpo d’uccello, orribili alla vista e all’olfatto. Dal loro matrimonio con Zefiro, nacquero quattro cavalli alati, i due cavalli di Achille e i due cavalli dei Dioscuri.
[3] Omero, Odissea, XX, 66-78.
[4] I Dioscuri, rappresentano la polarità elettromagnetica.
[5] A. Morretta, Il Quinto Millennio, p.142.
LE SEI CONDIZIONI PER LA   DISTRUZIONE DELLA  MAGICHE MURA
 
Sei, racconta Platone, erano i cavalli di Poseidone nel tempio di Atlantide, sei le condizioni o forze per distruggere le magiche mura di Troia. Fu il celebre indovino Calcante a svelare ad Agamennone e agli altri condottieri greci, venuti a consultarlo sulle sorti di Troia, che Ilio non sarebbe stata espugnata se:
 
1.      Achille e suo figlio Neottolemo-Pirro non vi avessero partecipato;
2.      I Greci non si fossero impadroniti delle frecce di Ercole, che erano state lasciate in custodia a Filottete;
3.      Non si fosse rapito il Palladio, custodito nel tempio di Atena;
4.      Non si fosse portato a Troia l’osso di Pelope;
5.      Non si fossero asportate le ceneri di Laomedonte;
6.      Non si fosse evitato che i cavalli di Reso bevessero nelle acque dello Xanto[1].
           
 
ACHILLE E IL FIGLIO PIRRO
 
Per scongiurare il vaticinio di Calcante, che preannunciava la morte di Achille all’assedio di Troia, la dea Tetide, madre di Achille, inviò in un’isola il figlio travestito da donna sotto il nome di Pirra, ove la figlia di un re gli diede un figlio di nome Pirro, in seguito chiamato Neottolemo. I Greci incaricarono Ulisse, Nestore e Aiace, di scovare Pirro e convincere Achille a guidare i suoi Mirmidoni all’assedio di Troia. La necessità della presenza di Achille all’assedio di Troia, non dipendeva mistericamente dalle sue qualità di guerriero, ma piuttosto dalla circostanza di essere il nipote di Eaco, cioè colui che insieme ad Apollo e Poseidone, avevano edificato sotto la guida di Laomedonte le invincibili mura di Troia. Fu quindi necessario indurre il figlio Pirro a partecipare all’attacco. Infine non è fuori luogo rammentare che Pirra avrebbe inventato la “danza guerriera pirrica”, per mezzo della quale, secondo Luciano (De Salt., IX), il guerriero avrebbe magicamente neutralizzato la cinta invincibile di Troia.
 
 
LE FRECCE DI ERCOLE
Era volontà di Ercole essere bruciato su una pira dopo essere stato avvelenato dal sangue infetto del centauro Nesso[2], ma egli si era rifiutato d’accenderla, in attesa di uno straniero che lo accendesse in sua vece. Passò di là Filottete che si offerse d’accendere la pira, ebbe come premio l’arco e le frecce di Ercole. Con quest’arco Troia poté un giorno essere conquistata[3]. Filottete, giunto a Troia uccise con una delle frecce avvelenate di Ercole, il giovane Paride, vendicando la morte di Achille. Paride, che veniva chiamato anche Alessandro, che significa “colui che difende e protegge gli uomini” è il simbolo del popolo troiano, dell’umanità della quarta generazione che stava per essere annientata: la morte di Paride è la morte dei Troiani. Paride è anche l’Eroe che si era unito con Elena, simbolo di Sapienza misterica, pertanto egli rappresenta l’Iniziato della Quarta Razza. La morte di Paride avviene per azione del veleno contenuto sulla punta della freccia scagliata da Filottete, la morte di Ercole avviene per effetto del veleno intriso sulla sua camicia: le morti dei due Eroi hanno lo stesso significato misterico.
 
 
IL FURTO DEL PALLADIO
 
L’indovino Calcante aveva predetto ad Agamennone le condizioni affinché si compisse il fato di Troia, e fra queste vi era il furto del Palladio, custodito nel tempio di Atena. Fra gli oggetti misteriosi in possesso di Dardano, e di Ilo, figurava anche il Palladio, una raffigurazione di Atena, che secondo indiscrezioni di scrittori cristiani ben introdotti nei riti e nei Misteri greci, quali Arnobio e Clemente Alessandrino, era costituito dalle ossa[4] di Pelope, figlio di Tantalo ucciso e fatto a pezzi dal padre per poi essere cucinato e mangiato dagli Dèi. Questo mito ricorda quello di Dioniso cucinato e mangiato dai titani. Secondo Ovidio, la colpa di Tantalo sarebbe l’indiscrezione da lui commessa per aver rivelato agli uomini il segreto degli Dei, come del resto fece Prometeo. Atena la Dea della Sapienza è la custode di questi segreti: il Palladio è la forma dell’insegnamento segreto di Pallade Atena. Da un punto di vista dei mutamenti geologici, il mito di Pelope è legato alle acque, in quanto l’uccisione rituale di Pelope provocò un diluvio universale[5].
 
I miti narrano che durante gli Achei seppero da Eleno, figlio di Priamo, che la città non sarebbe stata conquistata fin tanto che il Palladio si trovasse in città. Ulisse e Diomede si travestirono allora da mendicanti ed entrarono nella città, presero l'immagine della Dea e, scavalcando le mura, la portarono nel loro accampamento.
 
Nella più antica figurazione nota quella sulla coppa di Makron nell’Ermitage, i due eroi appaiono in atteggiamento simmetrico, la spada sguainata e ciascuno provveduto di un suo Palladio. La scena è stata variamente intesa, ma gli elementi indiscutibili appaiono: la presenza dei due Palladia, il vero e il falso? E il fatto che le spade sguainate non indicano la minaccia costante della rischiosissima impresa, ma il contrasto scoppiato tra i due eroi. La stessa scena con gli eroi Ulisse e Diomede che detengono ciascuno un palladio è riportata su un Oinochoe apula da Reggio Calabria (360-350 a.C.) conservato nel Museo del Louvre.
 
Le proprietà del Palladio possono dirsi l’origine divina, l’incomparabile preziosità per la nazione, le dimensioni ridotte che ne consentano il trasporto o il trafugamento. Conseguenza di questo pericolo è la duplicazione a scopo precauzionale e quindi il fatto che i Palladia, veri o copie, dovevano essere assai raramente avvicinabili se non addirittura nascosti e invisibili per generazioni. Ecco spiegato il motivo perché  vi fossero tanti Palladi. Lo stesso procedimento di duplicazione fu eseguito nell’antica Roma al tempo di Numa Pompilio con l’Ancile caduto dal cielo.
 
Questo strumento di potere doveva essere rubato per distruggere Troia. Il mito ci narra che Ulisse con l’aiuto di Diomede, di notte si sarebbe introdotto con uno stratagemma all’interno della città, riuscendo a rubare il Palladio. La  Tradizione dei cugini dei Troiani, gli Italici[6], non è d’accordo con Omero: Ulisse e Diomede avrebbero rubato una copia del Palladio, mentre il vero sarebbe stato portato in salvo da Enea in Italia, dove avrebbero trovato sistemazione nel tempio di Vesta[7], divenendo una delle sette cose fatali (magiche) di Roma.
 
 
L’OSSO DI PELOPE - IL MAGNETE
 
Un altro degli oggetti fatali da cui dipendeva il destino della Troia era l’osso di Pelope figlio di Tantalo. Agamennone, il capo degli Achei, era un discendente di Pelope.
 
Le vicende di Tantalo si collocano agli inizi del genere umano e meritano di essere approfondite. Le origini di Tantalo sono assai discusse. Nel mito greco, Tantalo è il primo re della Frigia (Lidia). Oppure egli sarebbe figlio di Zeus e di Pluto, la “ricca”, figlia di Crono, ma altri mitografi sostengono fosse figlio di Tmolo nome di un monte della Lidia famoso per l’oro che nascondeva al suo interno. Vi sono alcuni che ritengono che suoi genitori fossero Teti ed Oceano, oppure Nea e Crono.
 
Tantalo, intimo di Zeus, dopo aver partecipato in cielo ad un pasto con gli Déi, li invitò a sua volta ad un pasto terrestre, tagliò a pezzi il figlio Pelope, e lo fece bollire in un calderone e servì le carni in tavola. Gli Déi non assaggiarono le carni, solo Demetra, affamata e assorta per il rapimento di sua figlia Persefone, ne mangiò la spalla sinistra. Rea ebbe pietà di Pelope e riunì le sue membra e gli Déi gli restituirono nuova vita tramite un’altra cottura. La spalla di Pelope  mangiata da Demetra fu sostituita con una d’avorio e dopo la risurrezione riluceva a tal punto che i suoi discendenti porteranno sulla spalla una stella rilucente. Ovidio afferma che la vera colpa di Tantalo fu quella di aver rivelato agli uomini i segreti degli Dei, cioè i poteri elettromagnetici afferma l’autore di questo libro. Un ulteriore collegamento del mito con i poteri elettromagnetici lo dobbiamo al racconto mitico di Tantalo cacciato da Ilo-Troia per aver rapito Ganimede.
 
Tantalo fu punito con la distruzione del suo regno che fu funestato da violenti terremoti, in Lidia, in Troade, nella Ionia, prima che una violenta alluvione provocata da Poseidone sommergesse tutto per sempre compresa la mitica Troia[8].
 
Secondo Ovidio, la colpa di Tantalo sarebbe l’indiscrezione da lui commessa per aver rivelato agli uomini i segreti degli Dei, rubando in cielo l’ambrosia per portarla agli uomini, un audacissimo furto, del tutto simile a quello di Prometeo. Fu punito dagli dèi, la punizione più nota è quella descritta da Omero che lo colloca in acque  stagnanti impossibilitato di mangiare e di bere. Si narra anche che, come Prometeo fu legato ad una rupe, oppure fu sospeso fra cielo e terra e che come Atlante dovesse sorreggere il mondo. A Tantalo, veniva dato l’appellativo di “navigante dell’aria”. In tale occasione, racconta Euripide sul suo capo veniva messo il sole, come una pietra infuocata.
 
Il regno di Tantalo dalla Lidia doveva estendersi anche alla Frigia e alle pianure di Troia. Alla moglie di Tantalo venivano dati tanti nomi, fra gli altri Dione il nome di una Pleiade, figlia di Atlante. Ebbe tre figli, Pelope, Niobe, Brotea.
 
Brotea come Niobe venne in contrasto con Artemide ed entrambi furono puniti con la  morte. Brotea, il brutto, può rappresentare sia un’umanità ancora primitiva e sia delle terre distrutte con i suoi abitanti dai fuochi vulcanici. I Tre figli di Tantalo, Niobe, Pelope e Brotea rappresentano i popoli della Quarta Generazione.
 
Pelope, diede il nome al Peloponneso, cioè l’Isola di Pelope, oggigiorno il Peloponneso è individuato in quella parte del continente dell’Europa e dell’Ellade che è unita al resto della Grecia soltanto dallo stretto di terra, l’Istmo. Il Peloponneso non viene inondato ai tempi di Deucalione, anticamente abitato dai Pelasgi i primi abitanti della terra. Pelope era il signore di quel grande regno, ma all’inizio egli governò sui Lidi e sui Frigi. Fu cacciato dalle sue terre dai barbari invasori, si spostò verso Troia ma Ilo lo pregò di andarsene. Si spostò con un’immensa schiera di seguaci verso il regno di Enomao, figlio di Ares (Marte), il dio della guerra. Il nome della moglie del re era Sterope che significa lampo, la quale gli diede tre figli, Leucippo, Ippodamo, Dispondeo e una figlia Ippodamia, la “domatrice di cavalli”. Il nome ci informa che essa aveva a che fare con i cavalli. Un’altra narrazione mitica narra di un domatore di cavalli, il re Enomao, aveva ricevuto da suo padre Ares, le armi e due cavalle, come le Arpie, più veloci del vento. Le tre Arpie erano considerate da Omero[9] come personificazione dei venti di tempesta, pertanto i cavalli di Ares, il dio della guerra, erano delle potenze distruttrici, degli uragani.
 
Per impedire alla figlia di sposarsi e di generare una prole da cui sorgeranno popoli, il re, escogitò una gara di cavalli in cui il pretendente doveva misurarsi con lui, se avesse vinto, sposava la figlia, in caso contrario era ucciso. In questo modo uccise dodici pretendenti, inchiodando le loro teste alle porte del palazzo. Meta della corsa era l’altare di Poseidone sull’Istmo, il pretendente doveva rapire Ippodamia e portarla sul suo carro. Con l’arrivo di Pelope, il tempo di Enomao era giunto al termine, le dodici ore della manifestazione del suo regno erano giunte al termine. Si dice che Poseidone diede a Pelope un cocchio dorato trainato da immortali cavalli alati e dorati e con essi volò sopra il mare verso occidente. Il mito di Pelope è mistericamente connesso alla potenza del cavallo. Pelope promise a Mirtilo, figlio del dio Ermes e auriga del re, metà regno e la prima notte di nozze se lo avesse aiutato. Mirtilo sostituì i mozzi del carro del re con perni di cera ed Enomao finì ucciso dai suoi stessi cavalli, cioè fu distrutto dalla potenza degli uragani, non prima di aver maledetto il suo cocchiere. Pelope non mantenne il suo giuramento e scaraventò in mare dal suo cocchio Mirtilo che a sua volta lanciava una maledizione a Pelope e a tutto il suo casato. Il mare dove cadde prese il suo nome, Mare di Mirtoo ed egli fu trasformato da Ermes nella costellazione dell’Auriga. Secondo Pindaro, Pelope fu padre di sei signori di popoli, i quali si sparsero per il Peloponneso. Due dei figli di Pelope, Atreo e Tieste, fondarono la seconda dinastia di Micene. Pelope con i suoi sei figli forma il misterico numero sette. Il ciclo o il tempo concesso ai Pelopi è in relazione con una sotto razza a sua volta divisa in sette diramazioni o tribù.
 
Le vicende dello squartamento e rinascita di Pelope hanno non poche similitudini con quelle occorse a Bacco con le Ninfe. L’osso era la spalla di Pelope, che sarebbe rimasta per molti anni in fondo al mare, e nella tradizione greca era connesso ai riti di Zeus Ombrios per ottenere pioggia, inoltre secondo il poeta Nonno l’uccisione di Pelope provocò il diluvio universale. Solo un osso può essere connesso con i riti (kabirici) della pioggia ristoratrice e torrenziale, l’osso di Horos, il Magnete Cosmico, capace di orientare l’asse magnetico terrestre e di conseguenza causare i Diluvi universali.
 
È quindi verosimile pensare che i Greci, con la spalla di Pelope, mirassero a evocare un rito … l’inondazione della pianura e la distruzione delle mura di Troia da parte di Poseidone.[10]
 
Omero[11] si limita enigmaticamente a indicare che, il diluvio mandato da Poseidone cancella l’altro muro, quello costruito dagli Achei, analogamente all’inondazione della piana di Ilio perpetrata a suo tempo dal dio per punire lo spergiuro di Laomedonte[12]. Spostando a Troia l’osso di Pelope, si provocò lo spostamento degli assi magnetici terrestri, provocando così un’inondazione, un Diluvio, che permise la distruzione di quel continente, di quel piccolo cosmos abitato dai Troiani.
 
 
LE CENERI DI LAOMEDONTE
 
Una condizione oracolare era l’asportazione delle ceneri di Laomedonte. Dopo la morte di Laomedonte, il Signore del primo ciclo troiano, le sue ceneri furono raccolte e seppellite dai Troiani presso le porte Scee. Il solito Ulisse le avrebbe poi rubate, affinché si compisse l’oracolo, o il fato. Fu l’introduzione del cavallo degli Achei che distrusse l’occultamento del sepolcro di Laomedonte. Ai tempi dell’antico re, Apollo e Poseidone avevano edificato le magiche mura di Troia, che come un cerchio magico dovevano contrastare le forze del caos esterno a esse, cioè le forze dell’oceano.
 
Le mura di Troia che erano state edificate da Poseidone, erano circolari, come lo erano le mura ciclopiche, poiché i Ciclopi erano figli di Poseidone. Le mura rappresentavano la barriera, il confine con l’oceano, su cui regna Poseidone. La violazione delle mura o del cerchio magico provoca la distruzione dell’antico mondo con l’esaurimento del ciclo troiano. La cancellazione delle mura equivaleva alla reintegrazione nelle acque dell’Oceano primordiale, e quindi in altre parola al Diluvio.
 
Al tempo della prima distruzione di Troia avvenuta per opera di Eracle, fu aperta una breccia nelle mura sul lato occidentale, probabilmente dove fu poi eretta la porta di Scee. È in quella breccia che furono occultate le ceneri dell’antico re, quando iniziò il secondo ciclo di Troia. Il nome della porta Scee deriverebbe secondo alcuni da skiós o skaiós che indica cosa infausta, oscura e tenebrosa, perché posta ad occidente dove muore il Sole. Simbolicamente le ceneri di Laomedonte dovevano nuovamente sigillare la breccia aperta dalle forze del fato impersonato da Ercole. Laomedonte[13] diviene così lo spirito della nazione e naturalmente la sua forza. Le dispersioni delle ceneri hanno il significato di una rottura con il potere che aveva tenuto assieme il cosmos troiano.
 
 
RESO E I SUOI CAVALLI
 
Nel decimo anno dell’assedio, alla fine del ciclo, giunse in aiuto dei Troiani, Reso re dei Traci, l’ultimo fra coloro che aiutarono Troia. Un oracolo aveva predetto a Reso se avesse bevuto insieme ai suoi due cavalli bianchi l’acqua del fiume Scamandro, sarebbe diventato invincibile in guerra. Al fiume però trovò Ulisse e Diomede che lo uccisero e gli rubarono i due cavalli. Omero narra che Diomede uccise Reso e dodici Traci[14], mentre Ulisse prese con sé i due cavalli bianchi come la neve e veloci come il vento. Non è chiaro se questi bellissimi cavalli fossero i figli di Borea, il Vento del Nord, i nemici di Xanthos e Baio. Questi cavalli sono paragonati da Euripide per bocca di Nestore ai raggi del sole.

[1] M. Baistrocchi, op. cit., p. 13 - 14.
[2] Il centauro Nesso s’innamorò di Deianira sposa di Ercole, tento di rapirla ma fu ucciso dall’Eroe. Il centauro si vendicò convincendo Deianira a raccogliere un poco del suo sangue infetto, quale antidoto contro un tradimento del marito: disse che Eracle non si sarebbe innamorato di nessuna altra donna, se avesse portato addosso la camicia intrisa del suo sangue. Quest’allegoria mostra l’aspetto velenoso, letale, del possesso sessuale, l’attaccamento al corpo fisico al quale alla fine si dovrà rinunciare. Mentre il corpo di Eracle bruciava, Atena discese dal cielo per prenderlo con sé, e in seguito i poeti cantavano: “Ora egli è un dio, le sofferenze e le fatiche sono passate...”. Folgori celesti incenerirono il corpo fisico di Ercole.
[3] L’arco e le frecce di Ercole, hanno lo stesso significato e lo stesso scopo dell’arco e delle frecce di Diana, la distruzione del popolo troiano, appartenente alla Quarta Generazione.
[4] Le ossa di Pelope, di Oros,  di Seth, velano il potere elettromagnetico cosmico.
[5] Nonno, Dion. 20-30. Il Diluvio fu provocato dallo spostamento dei poli magnetici terrestri in seguito ad un movimento dei poli celesti.
[6] Secondo la tradizione di Arctino di Mileto, citato da Dioniso d’Alicarnasso, I, 69, 1-3.
[7] M. Baistrocchi, Arcana Urbis, p. 312 - 313.
[8] Le mitiche vicende di Troia, come quelle della mitica Tebe, nascondono storie antichissime su cui le vicende della storica Troia hanno una sola cosa in comune, il nome.
[9] Omero, Odissea, XX, 66-78.
[10] M. Baistrocchi, Arcana Urbis p. 31.
[11] Iliade VII, 446 – 63; XII, 10 – 34.
[12] Ovidio, Metamorfosi, Apollodoro, III, 5, 9.
[13] Fu sotto il regno di Laomedonte che furono edificate le magiche mura, con il potere del suono di Apollo e il potere di Poseidone, Signore della profondità delle acque.
[14] Si noti l’analogia con Pelope come Diomede uccise dodici Traci nell’accampamento di Reso, così Pelope sopravvisse alla morte di dodici pretendenti.
LAOCOONTE  SACERDOTE DI POSEIDONE E APOLLO
 
Poseidone e Apollo costruirono le magiche mura di Troia per conto di Laomedonte, al tempo di Priamo, il figlio risparmiato dalla furia di Ercole, Laocoonte un veggente e gran sacerdote di Poseidone, o, secondo alcune fonti, di Apollo, o di entrambi, cercò di impedire l’ingresso del cavallo di legno che avrebbe causato la fine di Troia. Nel secondo libro dell’Eneide si narra che, quando i Troiani portarono nella città il celebre cavallo, Laocoonte fratello di Anchise corse verso di esso scagliandogli contro una lancia che ne fece risonare il ventre pieno, provocando un cupo rimbombo. Proferì quindi la celebre frase «Timeo Danaos et dona ferentes», temo i Danai (i Greci), anche quando portano doni. Pallade Atena, che parteggiava per i Greci, punì Laocoonte mandando Porcete e Caribea, due enormi Draghi Gemelli, che uscendo dal mare avvinghiarono i suoi due figli, Antifate e Tymbreus stritolandoli. Laocoonte cercò di accorrere in loro aiuto ma subì la stessa sorte. Secondo un'altra versione i due serpenti furono inviati da Poseidone, che punì Laocoonte per essersi sposato contro la volontà divina.
 
Virgilio scrive che Laocoonte era stato ductus Neptuno sorte sacerdos “estratto a sorte come sacrificatore di Nettuno”. Arctino di Mileto (VIII sec. a.C.) autore della Iliou persis (Caduta di Ilio Troia), narra che quando vennero i dracones “draghi” dal mare, Laocoonte si stava accingendo a fare un sacrificio di un toro per scatenare la potenza di Nettuno contro gli Achei in ritirata. I due giganteschi serpenti uccidono – su mandato di Apollo – Laocoonte non in quanto sacrificatore di Nettuno – i draghi stessi sono infatti simboli del Dio.  Evoca il numen, ma viene sopraffatto da agenti della stessa forza: due serpenti gemelli. Virgilio descrive Laocoonte come un toro (simile al toro che si accingeva a sacrificare) che mugge e lotta disperatamente per sfuggire ai colpi micidiale della scure.
 
I serpenti sono due, escono dall'acqua, e i figli di Laocoonte sono anch’essi due, una polarità. Prima Due Cavalli Alati, poi Due giganteschi Draghi del Mare, la potenza sisica che genera distruzioni, causano la fine di Troia. I Troiani, credendo Laocoonte ucciso dagli dèi per punizione, portarono il cavallo all’interno della città, causando la rovina di Troia. Il Fato è avverso alla resistenza troiana. Esso rappresenta le possibilità del ciclo che vanno esaurendosi, di qui l’impossibilità di opporsi con efficacia ed invertire il processo di caduta.

Figura 1. Due draghi di mare
 

  
 
IL CAVALLO DI LEGNO E LE PORTE DI SCEE
 
Il destino di Troia si compì con l’entrata del cavallo di legno nella città, evento narrato da Omero anziché nell’Iliade, nell’Odissea. Il cavallo fatale fu costruito da Epeo, guidato a sua volta da Atena. Il legno venne recuperato dal boschetto sacro di Apollo. Vi fu scritto sopra: “I greci dedicano questa offerta di ringraziamento ad Atena per un buon ritorno”. Epeo era giunto a Troia con trenta navi.
 
Per fare entrare il cavallo all’interno della città, i Troiani, aprirono una breccia nelle mura e nell’architrave della porta che secondo Servio era la porta di Scee, dove erano state occultate le ceneri di Laomedonte.  Il nome della porta, Scee significa cosa infausta, oscura, tenebrosa, posta a occidente, il luogo mitologico dell’ingresso dei morti nell’Ade. Una breccia ad ovest, il luogo dove muore il sole, ha un solo significato, morte.
 
I Greci, in numero di trenta, o in numero di cinquanta che nel ventre del Cavallo di legno, entrarono in Troia.  Trenta, è il numero dei gradi del cerchio celeste che appartengono ad un dodicesimo, ad un’Ora del tempo ciclico, nel nostro caso, l’ora del fato. Il Giorno del Giudizio è il cinquantesimo che nella tradizione cristiana è il numero del Giubileo. I guerrieri all’interno del Cavallo rappresentano, le forze dell’oceano. Nella mitologia greca la potenza delle acque era rappresentata nella duplice forma del cavallo e del toro, e per proteggersi contro tale potenza che i Troiani avevano posto figure di tori e di cavalli sulle loro mura, e immolavano tori e cavalli vivi al fiume Scamandro, la potenza delle acque[1]. Il Cavallo come è stato precedentemente spiegato rappresenta Poseidone, Signore del mare, e dei terremoti.
 
Eschilo, Ennio e Virgilio, insistono sul fatto che il cavallo saltò sulle difese di Troia, evento che non si sarebbe verificato se il cavallo fosse passato regolarmente attraverso le porte adibite al traffico profano. Occorreva distruggere, quantomeno parzialmente, le porte e quindi anche l’architrave. I Troiani si fecero trarre in inganno credendo che il Cavallo avrebbe rafforzato le difese esterne e la cinta magica posta sotto la protezione di Poseidone, mentre per i greci era un’offerta dedicata ad Atena la divinità che fino a quel momento era la protettrice della divinità.
 
La dea Atena ad un certo punto smette di proteggere Troia, trae in inganno Ettore, il protettore della cinta magica della città,  per farlo uccidere da Achille, e abbia anche ispirato la costruzione del cavallo di legno. L’arcaico rito romano dell’evocatio, effettuato con i carmen, consisteva nel blandire e attrarre fuori della città il suo Nume protettore. Prima si è neutralizzato Apollo e il suo protetto Ettore, poi si è effettuato il furto del Palladio.
 
Omero narra nell’Iliade che secondo un oracolo, Troia sarebbe stata violata in un punto debole del muro. L’ingresso nella città del cavallo, con l’abbattimento dell’architrave della Porta di Scee, equivaleva alla rottura del sacro velo, lo Ieron Krédemnon, alla perforazione del sacro sigillo che proteggeva la città, l’immagine della deflorazione di una vergine. Gerusalemme erano definite nella Bibbia[2] come delle vergini e la loro espugnazione era paragonata a uno stupro. Nell’antichità ogni città era equiparata sia a una vergine e sia a un piccolo cosmos.
Figura 2. La distruzione di Troia circolare
 
Secondo Trifiodoro (345 e seg.), all’entrata del cavallo di legno, un gruppo di donne sciolse le cinture di verginità, i mitrai, mentre un altro gruppo sciolse il Krédemnon delle loro anfore, spargendo il vino per terra. L’ingresso del cavallo fu accompagnato da feste orgiastiche fra i due sessi. In questo caso il cavallo è omologato a un fallo, e la demolizione dell’architrave superiore della porta occidentale è omologata alla perforazione dell’imene. La prima immagine è quella della fecondazione di una vergine i cui figli Enea e le sue cicogne dovevano emigrare per colonizzare nuove terre. La seconda immagine è quella dell’immissione del flusso impetuoso e caotico delle acque dell’oceano all’interno del sacro cerchio con la conseguente distruzione del cosmos ordinato. La fine del ciclo troiano, il ciclo degli Eroi, rappresenta la distruzione di una parte dell’umanità, culla della Quarta Generazione, e la nascita, attraverso una migrazione di cicogne[3], della Quinta Generazione, quella che nei vari miti sopravvisse al Diluvio Universale.

[1] Omero, Iliade,216-239.
[2] Amos, 52; Isaia, 21 e seg.
[3] Una di queste migrazioni, portò le cicogne in Etruria, in Italia, dove fu fondata una nuova colonia. I Romani si ritenevano i diretti discendenti degli Eroi di Troia, attraverso la migrazione di Enea. Fra i sette talismani che secondo Servio proteggevano Roma, figurano, il Palladio e lo scettro di Priamo, il velo di Ilione che secondo Virgilio Elena ottenne dalla madre Leda.
I NUMERI SACRI DEL MITO TROIANO
 
Tutti gli scritti mitici e misterici, fanno riferimento a determinati numeri che rappresentano la chiave per interpretare, quello che volutamente era velato. Porfirio, scrivendo la vita di Pitagora afferma che il Pitagorico Moderatus, diceva che: “I numeri di Pitagora erano simboli geroglifici, per mezzo dei quali egli spiegava delle Idee concernenti la natura delle cose o l’origine dell’universo”. Platone scriveva che i numeri sono “principi causali per le altre cose”, e che l’universo è armonia di rapporti (di numeri) e di forze. Non comprenderemo le vicende mitiche se non utilizziamo quel particolare strumento che è il traduttore o l’interprete fornito dalle conoscenze dei simboli e dei numeri.
 
La seconda moglie di Priamo il re di Troia, Ecuba o Ecabe[1], generò al marito 19 dei suoi 50 figli, gli altri figli li ebbe da concubine. Il primo figlio di Ecuba, fu Ettore, il protettore della città, il cui destino è strettamente legato alle magiche mura di Troia; il secondogenito fu Paride, colui che apparentemente scatenò la guerra degli Achei contro i Troiani. Il numero totale dei figli è in relazione con il grande ciclo, caratterizzato dal numero cinquanta, che è legato a Ercole e al mito tebano delle figlie di Thespio[2]. Priamo regnò 52 anni, il numero delle settimane che compongono l’anno solare, i figli legittimi dell’anno solare, sono 19, il numero del ciclo luni-solare o metonico. Apollo, ritorna ogni 19 anni nel paese degli Iperborei; il Sole impiega 19 anni per ricongiungersi con la Luna. Omero scrive che Priamo aveva anche 12 figlie, che evidentemente rappresentano i mesi dell’anno, le Ore del Ciclo.
 
“… e c’erano, affiancate le une alle altre le cinquanta stanze dei figli costruite in pietra ben levigata; lì in vero dormivano i cinquanta figli di Priamo vicino alle spose; dall'altra parte, nell’atrio, si affacciavano, sotto lo stesso tetto, affiancate, le dodici stanze delle figlie: lì dormivano i generi di Priamo presso le virtuose spose”. (Iliade, VI, 242-250).
 
Omero pone per ben due volte l’accento sul numero cinquanta. Secondo l’antichissimo Libro dei Mutamenti cinese “I King”, il numero della quantità totale è Cinquanta. Nel Vishnu Purana la terra sferica che galleggia nell’Oceano dello Spazio viene divisa in Sette Zone ed ha l’estensione di 50 crore di yogiana. In definitiva la semisfera inferiore da cui uscì il Creatore degli Indù il dio Brahma ha un’estensione di 50 unità ed è divisa in 7 parti. Le sette zone sono indicate come sette oceani o divisioni di materia, e poiché ogni tipo di materia è settenario otteniamo 7x7 = 49, valore che sommato all’Unità che rappresenta il centro del cerchio, si ottiene il numero cinquanta. Il Giorno del Giudizio è il cinquantesimo che nella tradizione cristiana è il numero del Giubileo. Il periodo fra due celebrazioni o giochi ad Olimpia era di 50 mesi, mentre l’intervallo vero e proprio era di 49 mesi. Il periodo delle feste di Eros, il dio del desiderio e della generazione sessuale, le Erotidia a Thespio, presso Tebe, era appunto uguale a quello delle Olimpiadi, ed entrambi i periodi seguivano l’antica legge del rinnovamento scandito dal cinquantesimo mese, in ricordo del rinnovamento generale scandito dal cinquantesimo Anno Divino. La somma delle due semisfere è 100, il numero degli anni divini di Brahma, che secondo il calendario bramanico, coincidono con la durata del nostro sistema solare.

[1] Il nome vela Ecate, la divinità dell’oltretomba.
[2] A Thespio, in Beozia, si veneravano i Kabiri, ed Ercole era uno di questi.
 
100 Anni Divini la vita di Brahma
50 anni di Attività e 50 Anni di Riposo
19 Anni, ciclo di Metone, Figli di Ecabe
Ricongiunzione nel cielo Sole e Luna
12 Le Ore della Creazione, Figlie di Priamo
I mesi dell’anno, i segni dello Zodiaco
Giorno 24 Ore
 
12 Ore di Luce e Attività o Azione
 
– gli sposi delle figlie di Priamo
 
12 Ore di Tenebra e di Introspezione
 
– le figlie di Priamo
Iliade 24 canti
 
 
Odissea 24 canti
10 anni il ciclo dell’Iliade
10 anni il ciclo dell’Odissea
Torna ai contenuti